Tracce dell’anima










A te
che mi hai lanciato la corda
mentre affondavo
nelle sabbie mobili
della tristezza.
A te
che, come dice Lorenzo,
“mi hai raccolto come un gatto
e mi hai portato con te…”
A te
che hai riacceso ad una ad una
le luci spente della mia mente.
A te
che mi hai ridato
una ragione di vita
un perché.










Sei nata dalla pioggia di una sera estiva
sei nata da un sogno di fine primavera
bruna come le calde ombre dell’Amazzonia
fresca come la ventata del tuo sorriso
azzurra come il cielo di un oceano lontano
rossa come la fiamma di un falò di agosto
rosa come la passione di una sera di giugno.

Abbiamo adorato l’incanto del Sole
quando insonne il Sole ci ruotava attorno
abbiamo bevuto il Sole incantato
quando volavamo i giorni senza notte
abbiamo volato sopra il grande oceano
tornando alle tue radici lontane
sopra la terra rossa come le tue passioni.

La tua nave ha affrontato tante tempeste
la tua nave ha vinto contro le onde e il vento
la tua nave percorre serena e lenta
i primissimi giorni di un tiepido autunno
ma la nave racchiude in un angolo nascosto
la bambina veloce che saliva sui rami
la bambina sveglia che lanciava i cavalli
la bambina che dormiva col suo micifùz.










Verrà un giorno
in uno spazio senza
tempo in un tempo senza spazio
in cui veleggerò
più leggero dell’aria
sempre a bordo della mia auto
sempre lungo la stradina
che costeggia il lago.
La mia automobile
sarà fatta di vento.
La stradina attorno al lago
sarà fatta di vento.
E io sarò fatto di vento.
E sarà un sereno volo senza fine.










Le ombre della notte
le nere ombre della notte
della gelida notte invernale
della lunga lunghissima
gelida notte invernale
si sono spalancate davanti a me
alle sei e un quarto
dell’undici agosto 1992.
Avevo quarantadue anni
quando persi mio padre.
E fu come se l’intera mia vita
fosse entrata in un tunnel
un tunnel
un lungo lunghissimo
tunnel senza luce
un tunnel senza pace
come se la terra sotto i piedi fosse acqua
come se la terra sotto i piedi fosse aria
come cadere all’infinito
come se il lungo tunnel
mi avesse risucchiato
proiettato
in una lunga lunghissima
notte
in una angoscia totale
in una totale angosciosa
solitudine.










Dalle nebbie della memoria
torna il sorriso di mia madre
torna il suo giovane sorriso solare
torna un lontano giorno di vita
torna un lontano giorno d’infanzia
quando tutto era nuovo e fragrante
quando tutto era gioco e allegria
quando tutto era gioia e fragrante allegria.
Forse è la primavera nell’aria
forse è l’odore delle foglie nuove
e torna l’odore della sua pelle
torna l’odore dei suoi anni giovani
torna l’odore del suo golfino di lana
quando la mia testa
era appoggiata alla sua spalla
torna l’odore del suo amore senza condizioni
torna la fragranza delle sue parole
torna il calore avvolgente
del suo infinito abbraccio.










Il freddo umido della montagna
scioglieva le mie labili emozioni
cristallizzava i miei pensieri razionali
e come una valanga inarrestabile
mi travolse di colpo la tristezza.
I pianti che avevo ho lasciato da bambino
sotto al tappeto dei giochi
li ho pianti adesso.
Piangere
piangere e ancora piangere
perché ora è questa
la mia principale emozione.
Nel freddo umido della montagna
mi sono lasciato scendere
verso un volo planante
verso di lei
verso colei che tutto mi ha dato
verso l’unica
che mia abbia restituito la vita
in questa crescente anzianità.
Verso colei che tutto mi ha dato
dalle parole incoraggianti
al suo amore
poter appoggiare la testa alla sua spalla
di amante
di madre
di padre
di amica e sorella e figlia
A te
il cui sorriso
illumina il sole.










A Gennaio la luce cambia. È sempre stato così. Davanti al mare dell’infanzia o attraverso il rettangolo di una finestra, guardi la luce di Gennaio, in cielo, sulle case, sopra il mare, dietro i pini o i cipressi, dietro i gelsi o gli olmi, la luce di Gennaio cambia.
C’è nella luce di Gennaio, un brivido di primavera. Magari è anche un brivido di freddo, ma la luce, rispetto agli ultimi mesi, la luce di gennaio cambia.
Tanti anni fa, in uno dei tanti giorni di Gennaio che ho vissuto, mi venne un pensiero, una frase: Ogni stagione contiene in sé quella successiva.


Ieri ho letto su una rivista che il 2015 avrà un secondo in più. Devo confessare che da qualche anno e sempre più spesso, le giornate mi sembrano sempre più lunghe. Il tempo non passa mai. Già dalle quattro di pomeriggio inizio a pensare al momento in cui finalmente mi addormenterò. E mi vengono a dire che il 2015 avrà anche un secondo in più?!?! .


Ieri, sì, sempre ieri ma nel pomeriggio, anche perché ero ossessionato da quel secondo in più che avrei dovuto in qualche modo far trascorrere, ho ripercorso la solita discesa a zig e zag. E la discesa era buia, come in quella notte di maggio. Ma non era notte. E non era Maggio.
Era una sera di Gennaio.
Però c’erano ancora gli impercettibili zig, gli assolutamente impercettibili zag.
C’erano ancora le luci coloratissime della città, che dalla pianura si stendeva quasi fino a diventare verticale, sul fianco del monte.
Tante cose erano cambiate. Lì, come i palazzi o i sottopassaggi o le nuove rotonde. Tante cose erano successe. Tante cose non erano più come prima e tante altre erano sempre uguali.
E io ero ancora io, come sessant’anni fa.
Non è buffa la cosa?
Non so quanti miliardi di persone ci sono, sulla Terra, ma io sono sempre e solo io.
A volte la cosa mi provoca un po’ di noia. altre volte, invece, mi guardo allo specchio e mi dico: caspita, meno male che io sono io.


Lo stesso io che, alla mattina di Natale, quando c’era il sole (e laggiù alla mattina di Natale c’era sempre il sole) uscivo coi miei genitori. Avrei voluto portarmi con me tutti i regali di Natale, ma non era possibile.
Mi rassicuravano che li avrei ritrovati tornando a casa.
Allora uscivamo, e andavamo a camminare in un parco, molto vicino a casa. E io raccoglievo le ghiande. Ne raccoglievo il più possibile. Poi lasciavo le ghiande e mi mettevo a correre. E correvo, correvo, correvo.
Io credo che in quel parco, ancora adesso, del tutto invisibile, ci sia una copia di quel bambino, del bambino che ero, e che alla mattina di Natale, nel sole, si metta a correre. E corre, corre, corre ….










L’estate del 2014 è stata … un’Estate senza estate.
A Febbraio non vedevo l’ora che arrivasse Marzo.
Ma fino a un certo punto.
Sì, naturalmente, mi piaceva vedere la luce, quando uscivo verso le sei di mattina.
Sì, naturalmente, mi piaceva vedere che ad ogni sera la luce spariva sempre più tardi.
Sì, naturalmente, il fatto che i giorni si allungassero mi dava una sottile soddisfazione.
Io, però, temevo il caldo.
Da giovane Io amavo il caldo, ma da qualche tempo il caldo mi dava sempre più fastidio.
Anzitutto, col caldo, mi sentivo pesante, affaticato, un po’ stressato. Il caldo mi dava ansia, depressione, una strana sensazione di spossatezza.
In Febbraio attendevo con impazienza che arrivasse il mese di Marzo, ma lo temevo, anche. Temevo che col mese di Marzo, come talvolta era accaduto, soprattutto negli ultimi tempi, potessero stabilirsi periodi di calore crescente, quasi estivo, un caldo umido che mi avrebbe provocato quella lunghissima sequela di fastidi di cui qui ne sono stati elencati solo alcuni.
E infine Marzo arrivò. Ma arrivò in maniera insolita.
Ricordavo che, negli anni, il Primo di Marzo era sempre stato un giorno di sole. Sì, magari nella notte tra l’ultimo dì Febbraio e il Primo di Marzo aveva addirittura nevicato, o c’era stata una pioggerellina che era cessata soltanto all’alba.
Poi, però, il Primo di Marzo era stato un giorno di sole. E qualcuno direbbe uno stupendo giorno di sole!
Negli ultimi anni, tuttavia, il clima era cambiato. Quando arrivava il sole, il termometro schizzava subito in alto, 27, 28 gradi, a volte 30, 31 e anche 32 e oltre, con un’afa, una insolita umidità che soffocava.
Quell’anno ero stato attentissimo alle temperature. La mia macchina, comperata da poco tempo, era dotata di un vero e proprio display, un computerino di bordo, che tra le tante cose mi segnalava anche la temperatura esterna.
E, incredibile ma vero, un giorno segnò in Gennaio, in un pomeriggio assolato di Gennaio, la temperatura di 16 gradi.
Sì! 16 gradi.
Ripensavo a quando, tanti anni prima, la temperatura si era mantenuta per tutto il mese di Gennaio sotto lo zero.
Ripensavo a quell’anno (il 1970) quando a mezzogiorno il termometro esterno della casa segnava 10 gradi sotto zero.
Il tempo del Gennaio gelido era finito da un pezzo.
Però vedere 16 gradi in quel mese per me restava un fatto insolito, anzi straordinario.
In Febbraio, poi, addirittura la temperatura, anche solo per un giorno, fu di 19 gradi.
E sempre, ogni volta che si verificavano quelle temperature, seguivano inevitabilmente giornate di pioggia violenta.
Se però in Febbraio l’alternanza di giorni troppo caldi con giorni di pioggia troppo intensa, si era verificata una sola volta, il Primo Marzo fu un giorno di pioggia a catinelle, che seguiva a giorni di caldo eccessivo, per essere ancora in Febbraio.
Ma subito dopo gli acquazzoni del Primo Marzo, vennero tre giorni di un caldo soffocante. Il termometro oltrepassò i 27 gradi. Io, come tutti, d’altronde, era sconcertato.
Ma i meteorologi assicuravano: “È una situazione del tutto passeggera, dovuta al riscaldamento globale terrestre. Passerà. La situazione si stabilizzerà”.
E invece accadde esattamente il contrario. Quello che si stabilizzò fu proprio l’alternanza di giorni troppo caldi per essere Marzo, a scrosci violenti di pioggia, che spesso provocavano esondazioni locali.
Ero quasi felice di questa situazione.
Amavo i giorni di pioggia.
Ero un tipo strano. Col passare degli anni non è che non mi piacesse più il sole, specialmente quando in Luglio e in Agosto prendevo l’auto e girovagavo per le strade che carezzavano i laghi prealpini.
Ad andatura lenta percorrevo quelle strade, che da un lato mi presentavano la visione azzurra del lago, e dalla parte opposta mi regalavano i colori delle Ortensie.
L’anno prima avevo fatto con gli occhi il pieno di Ortensie, specialmente nel mese di Agosto. E in questo senso non vedevo l’ora che arrivasse l’estate. Però sempre più, anno dopo anno, il caldo mi era diventato penoso.
Tutto sommato adoravo il fatto che qualche giorno di pioggia spezzasse ogni tanto il caldo.
Per l’intero mese di Marzo si alternarono giorni di caldo umido a giorni di pioggia intensa.
Alla fine di Marzo, di mattina presto, in panetteria, mentre fuori pioveva, in mezzo alle solite chiacchere da panetteria, mentre proprio parlavano di queste continue piogge periodiche molto intense e fredde, buttai lì la frase:
«Mi sa che andremo avanti così per tutta la primavera».
Tutti, in panetteria, mi guardarono male.
Ma ci indovinai. Marzo, Aprile, Maggio e Giugno furono caratterizzati dall’alternanza di periodi di tre o quattro giorni di caldo soffocante, al di sopra della media, e giorni di pioggia intensa con un freddo che sembrava d’essere alla fine di Novembre.
Tutti pensavano che durante il mese di Giugno la situazione cambiasse.
E tutti sbagliarono.
Giugno finì con una pioggia che provocò qua e là delle alluvioni, e la temperatura scese al di sotto dei 15 gradi.
Proprio in uno di quei giorni piovosi di fine Giugno di nuovo in panetteria si lamentavano del tempo.
E io buttai lì la frase: «Mi sa che andremo avanti così per tutta l’estate».
Tutti, in panetteria, mi guardarono malissimo.
Anzi, mi incenerirono con lo sguardo.
E tutti si sbagliarono di nuovo. Beh, viene quasi da ridere a dirlo, ma in pieno Agosto per ben tre volte il termometro scese a 15 gradi, durante un periodo di pioggia.
Mia moglie Rosaly, fin dalla metà di Luglio, aveva avuto problemi di salute.
Quei problemi alla fine di quell’Agosto veramente surreale avevano portato Rosaly a una lunga degenza ospedaliera con tanto di operazioni.
Naturalmente quei problemi di salute non avevano nulla a che fare con il perverso clima di quel mese d’Agosto, con la alternanza di giornate di sole, umide ma fresche, e giornate di pioggia e di freddo novembrino.
Io soffrivo molto per le vicende ospedaliere di Rosaly e la assistevo costantemente.
Qualche volta, per liberarmi dallo stress, presi l’auto e tornai a girovagare per i laghi alla ricerca delle Ortensie.
Le Ortensie, però, non c’erano più.
O meglio, i cespuglioni di Ortensie c’erano ancora, sì, laddove però l’anno prima fiorivano Ortensie meravigliose, di solito azzurre, talvolte rosse, alcune di un celeste intenso, e in una discesa ripida, sul fianco del monte, addirittura un incredibile insieme di Ortensie blu scure.
L’anno prima.
Ma invece, in quell’Agosto di giorni di sole e giorni di pioggia, ma soprattutto di freddo intenso durante i periodi di pioggia, in quel perverso Agosto le Ortensie, che già stavano fiorendo ad Aprile, si erano bloccate.
Quelle fiorite erano rimaste belle, almeno per un po’. Le altre si bloccarono su un verdastro iniziale che virò verso il colore del marcio.
Alla fine di Agosto, di Ortensie, non ce n’erano quasi più, o meglio, c’erano delle Ortensie marce, quasi indistinguibili dal resto della vegetazione, altrettanto di colore marcio.
Dopo un periodo difficile per Rosaly, le cose migliorarono. La degenza ospedaliera durò diverse settimane ma alla fine si prospettò la possibilità di una dimissione dalla Casa di Cura.
Avevo vissuto giorni di sofferenza, tornando a casa alla sera, dall’ospedale, trovando la casa deserta.
Ma ora tutto stava finendo e la dimissione dall’ospedale finalmente arrivò, quasi all’improvviso, all’inizio di una calda domenica mattina di metà settembre.
In quella afosa domenica assolata di metà Settembre, volando in auto verso casa, Rosaly al mio fianco osservava incantata il paesaggio di capannoni industriali dismessi e di prati di periferia e tornava alla vita, e all’improvviso mi resi conto che quella estate senza estate era già finita.
E iniziava l’autunno, un altrettanto strano autunno, un autunno che in quel momento sembrava quasi estate.
«Sai, Rosaly», le dissi, «beh, ecco, stavo pensando ... che probabilmente tra poco rifioriranno le Ortensie».
L’auto, in quel deserto domenicale di prima mattina, sfrecciò a ottanta all’ora passando un semaforo rosso. Me ne resi conto quando ormai eravamo molto oltre.
«Oh, il semaforo … », dissi. «Ero un po’ distratto. Pensavo … pensavo alle Ortensie … ».










Da qualche anno amo percorrere in auto, ad andatura lenta, la stradina che costeggia il lago. Avanzo lentamente, a marce basse, gettando occhiate allo specchio lucente del lago, ai riflessi del sole sull’acqua. Quell’anno, però, il sole era raro, e nella stagione estiva, quando dai fianchi dei monti esplodono le Ortensie, tutto era strano, diverso, assopito.
Io stesso, a causa degli eventi drammatici che avevano colpito Rosaly, vedevo nella tristezza delle Ortensie la mia stessa tristezza.
Vedevo nel grigio del cielo l’umore della mia mente.
In quella estate senza estate, capivo come nella vita le poche certezze possano sfuggire dalle dita.
In quella estate senza estate mi sentivo un piccolo petalo di Ortensia, in balìa degli eventi.




















E all’improvviso le dissi: «Tu … Tu, sei la mia casa».



















Tra l’ultimo gradino della rampa di scale e la porta a vetri della clinica c’erano pochi passi. Al di là della porta il cortile era ancora illuminato dal sole. In fin dei conti, nonostante la pioggia di quell’estate, nonostante la temperatura mite, quasi sempre fresca, talvolta fredda, di quella estate, era pur sempre estate.
E nonostante fossero le otto di sera, c’era ancora il sole. E il sole illuminava di sbieco il parcheggio. Com’era diverso il parcheggio a fine giornata.
La frenesia della mattina era scomparsa. Le auto posteggiate erano poche. Mi avvicinai alla mia auto. E mi resi conto di colpo che stavo per tornare da solo a casa. Rosaly invece era là, in una delle stanze di quella clinica, lontana dal mondo, lontana da casa, lontanissima dalle sue terre, dalle sue origini.
Mi ritrovai a piangere a dirotto, la testa appoggiata sul volante. E non mi riusciva di smettere di piangere. Tornare a casa … ma dov’era la casa? Che cos’era la casa? Chi era la mia casa?










In quei giorni ero un po’ fuori di testa. Rosaly si era ammalata e tutto era di colpo precipitato. Con Rosaly non avevo trovato soltanto una compagna e una moglie. Con Rosaly avevo trovato anche una vera amica, una figlia, una madre.
Con lei avevo vissuto il viaggio più bello della mia vita. Con lei avevo scoperto valli profonde, grandi montagne, spacchi improvvisi in cui s’incuneava il mare, e il sole freddo, che senza fine illuminava quei monti, quei fiordi, l’acqua luccicante di quel mare, giorni che non avevano notte, giorni che passavamo viaggiando, giorni sempre più luminosi, la notte ormai alle spalle, lontana, sempre più lontana, da sembrare mai esistita.
Con lei, finalmente avevo trovato quella che si suol definire la mia anima gemella.
Ma prima di quello che era accaduto in quei giorni, prima, forse, non mi ero reso conto di quante cose significasse per me quella donna.
In tanti anni di nuova vita con Rosaly, mai mi ero trovato a sperimentare quella drammatica situazione.
Non avevo avuto veri amici. Gli unici miei veri amici erano stati i miei genitori.
I miei genitori ed io ci adoravamo a vicenda. Poi mio padre morì e mi sentii la terra mancarmi sotto i piedi.
Un difetto, però, mio padre ce lo aveva avuto, smisurato, immenso: quello di tenermi sempre nel nido, quello di avermi letteralmente impedito di crescere.
Mio padre mi portava il cibo nel nido e quando io accennavo a voler imparare a volare, mio padre mi sconsigliava.
«Il mondo», mi diceva, senza dirmelo, «il mondo al di fuori dal nido è pieno di aquile, di falchi, di condor, pronti a ingoiarti».
Sì, era vero che il mondo è così.
In effetti non lo diceva espressamente, ma implicitamente.
Già, è proprio vero che il mondo è pieno di aquile, di falchi, di condor, pronti a ingoiare le prede facili, ma mio padre avrebbe dovuto insegnarmi a difendermi, avrebbe dovuto insegnarmi a volare, anche ad attaccare, se necessario.
E invece ero totalmente incapace di difendermi, facile preda, dunque, delle aquile, dei falchi e dei condor.
Dopo tante esperienze amare, avevo incontrato Rosaly, e la mia vita si era subito illuminata di nuovo.
Rosaly aveva un passato in qualche modo simile a quello mio.
Eterna bambina, fuori dalle convenzioni, amante dei viaggi, gitana e avventurosa, come me non amava gli orari, non amava le convenzioni, non amava i formalismi.
Come me era spensierata, esploratrice, complice.
Ma dopo tanti anni di comuni avventure, Rosaly si era ammalata. Incredibile. Di solito ero io che vivevo tra mille acciacchi. E Invece Rosaly si ammalò, si ammalò seriamente.
Le cose sembravano precipitare. Dai primissimi esami, quelli non invasivi, che avevano dato esiti dubbiosi, si era passati a esami più approfonditi, che davano quadri clinici di volta in volta più preoccupanti finché si arrivò alla prima operazione.
Rosaly faceva di tutto per risollevarmi il morale.
Sì! Proprio così!
Era Rosaly che era ammalata, ed era Rosaly che tentava di tenere alto il mio morale.
Io, invece, ero distrutto.
Agli occhi miei, Rosaly era ancora la bambina che correva nelle sue campagne lontane, che si arrampicava sugli alberi, che dormiva col suo micetto di nome Micifùz.
Non poteva ammalarsi, Rosaly!
Rosaly amava la vita con la massima intensità e temevo che gli eventi potessero smorzare la serenità che Rosaly portava sempre con sé. Temevo che Rosaly perdesse quella sua felicità interiore.
Insomma, soffrivo molto più io di Rosaly ed ero veramente fuori di testa.
Il giorno della prima operazione avevo deciso di farmi un giretto in macchina fino al lago, per scacciare i pensieri, in attesa che Rosaly venisse riportata nel suo letto.
Mi avevano detto non serviva a niente che restassi in ospedale e che non tornassi prima di almeno cinque o sei ore.
Ma non c’era niente da fare. Ero completamente tormentato dalla preoccupazione per Rosaly in balia degli eventi, per il fatto che ormai la situazione mi fosse sfuggita di mano.
Quando mi si parò davanti l’ennesima rotonda, decisi di compiere un giro a 360 gradi e tornai all’ospedale.
Stavo parcheggiando, agitato, sovrappensiero, infilandomi tra due auto già parcheggiate, quando urtai o meglio sfiorai una delle due auto.
Scesi, constatai che non vi erano danni per nessuno, e uscii da quella strettoia per andare a parcheggiare in uno spazio senza auto.
Di li a poco arrivò un energumeno infuriato.
Pareva volesse massacrarmi.
Urlava, l’energumeno, affermava che se avesse avuto la pistola mi avrebbe sparato. Mi accusava di aver rovinato la sua macchina. Mi accusava di voler fuggire.
In realtà, dopo aver posteggiato lì vicino, a una decina di metri, sempre all’interno del parcheggio ma in uno spazio del tutto privo di macchine, ero sceso dall’auto e a passi veloci stavo dirigendomi verso la macchinetta distributrice dei biglietti orari del parcheggio, per poi tornare a mettere il foglietto tra il volante e il parabrezza.
L’uomo era giovane e palestrato. Io sono un ometto ormai anziano, indebolito dagli eventi, affannato e fuori forma.
L’energumeno pareva volesse distruggermi.
D’improvviso persi quasi ogni controllo e sbraitai anch’io contro quell’energumeno privo di cervello. L’uomo non si aspettava una reazione così coraggiosa e restò bloccato. Ma io avevo ben altro a cui pensare e me ne andai. Gli dissi che se voleva segnarsi la mia targa era liberissimo di farlo.
L’attesa, all’interno dell’ospedale, fu snervante. A piano terra in una saletta apposita un monitor segnalava il codice dei pazienti sotto operazione e quelli la cui operazione si era conclusa. Dopo un’ora anche il codice di Rosaly passò tra coloro la cui operazione si era conclusa e mi precipitai al letto di Rosaly che però era angosciosamente vuoto.
Allora ripiegai su un’infermiera che molto gentilmente mi spiegò che potevano trascorrere ore di attesa dopo la fine dell’intervento.
Marciai lungo i corridoi dell’ospedale, percorsi le scale in salita e in discesa, alla fine mi sedetti sui gradini delle scale in posizione strategica per osservare l’uscita dei pazienti dalle sale chirurgiche.
Dopo un’ora di snervante attesa, sommersa da un lenzuolo verde, la riconobbi.
Immobile, molto più immobile di come potrebbe essere una persona che dorme, ma era lei, Rosaly.
Ero sempre più sconvolto, però tutto, attorno a Rosaly, procedeva in tranquillità. Portarono Rosaly nel suo letto e dopo un quarto d’ora Rosaly aprì gli occhi e mi riconobbe. Rosaly mi sorrise con lo sguardo. Poi sussurrò qualcosa. Io, col passare del tempo, sono diventato un po’ sordo e dovetti accostare l’orecchio sinistro, quello da cui ci sentivo meglio, alla bocca di Rosaly.
Rosaly mi chiese di una vestaglia che era in macchina. Mi precipitai giù per le scale, nel parcheggio. Speravo di non incontrare l’energumeno. Non avevo tempo da perdere.
La macchina dell’energumeno non c’era più.
Tornai come Flash Gordon al letto di Rosaly.
Rosaly si era riassopita.
Sul letto accanto, c’era un giornale.
La prima pagina riportava notizie di teste tagliate, di guerre, di distruzioni, di donne e bambini morti.
Andai alla vetrata della camera. Passava lentamente un treno, e aveva ricominciato a piovere, in quella estate senza estate.
Anche quella estate senza estate, come tutte le cose, ebbe un termine. Le stagioni, per quanto anomale possono essere, prima o poi finiscono.
Arrivò l’autunno, arrivò l’inverno, anch’esse stagioni un poco anomale, ma la diversità maggiore era nella nostra vita, la cui continuità era stata spezzata dalla malattia di Rosaly.
Gli eventi accadono, poi restano alla spalle, non esistono più. Ne restano le conseguenze. E le tracce, nel ricordo.
Resta la furibonda lite con la farmacista, che non mi aveva dato i guanti sterili rifilandomi guanti sbagliati e quando glielo feci osservare, diventò una belva. Era ancora una giornata di fine estate e forse il caldo le aveva alterato la mente.
Come la gente si infuria per un nonnulla!
Restano i ricordi del ritorno a casa di Rosaly, dopo la prima operazione.
Restano i ricordi della seconda operazione e di quelle sere, ogni giorno più buie, di quando tornavo a casa di nuovo da solo e Rosaly mi salutava dalla finestra dell’ospedale.
Restano i ricordi del secondo ritorno a casa.
Restano le mattine della terapia. Restano le sofferenze della terapia, che Rosaly stessa definì “quasi peggiori delle stesse operazioni”.
Resta la sera in cui, presa dalla disperazione per il prurito e la sofferenza, perdendo a ciocche i capelli, decise lei stessa di raparsi a zero.
Resta il lungo inverno, le luci di Natale, le feste, nonostante tutto. E i primi giorni dell’anno nuovo, la sua nuova luce, la lunga discesa verso la primavera e la sperata guarigione.
Resta la riconquistata serenità.
Resta la calma silenziosa, in cui la quotidianità di un tempo torna, in punta di piedi, ma torna.
Volti, parole, ansie. Ricordi. Nuovi progetti. Vecchie abitudini.
Come il giro del lago o la discesa a impercettibili zig e zag.
Tutto
e niente
è come prima.











Una sera d’autunno, seguendo il navigatore, mi ero perso. La stradina, nella nebbia che s’infittiva, era sempre più stretta e non più asfaltata finché davanti ai miei occhi apparve un cancello chiuso e la stradina finiva lì.
Non ricordo quando scesi dalla macchina né come aprii il cancello. In fondo al giardino c’era una casa e le persiane erano tutte chiuse.
Tutte le persiane erano chiuse. Sembrava quasi non fossero mai state aperte.
Eppure chissà quanta vita vi era stata, in quelle stanze che ora avevano tutte le persiane chiuse.
Eppure chissà quante luci accese, nelle sere, nelle notti, avevano illuminato le pareti, i tavoli, gli attimi, i sospiri, in quelle stanze ormai nude.
Eppure chissà quanta vita si era accesa al di là di quelle scure persiane chiuse.
Avevo come la sensazione di conoscere quelle stanze.
Avevo come la sensazione di aver consumato tanto della mia vita in quelle stanze ormai buie, ormai silenti e nude.
O forse non avevo mai neanche varcato il cancello.
O forse non avevo mai neanche imbucato quella stradina.











Sul letto teniamo fissi 5 pelouche. Una coppia di tartarughe, che ovviamente d’inverno se ne stanno nascosti nei meandri dei piumoni. Poi un alce maschio, una alce femmina (in realtà era un maschio, aveva le corna, ma gliele abbiamo tagliate … insomma potremmo considerarlo un trans, ma la chiamiamo Elga e la consideriamo una femmina a tutti gli effetti. D’inverno è sempre coperta da femminili foulard.
E infine c’è la Muffa. Non è un animale definito. Ha un orecchio rosa e uno grigio, i capelli rossi, e poi non somiglia a nessun essere vivente in particolare. Ha occhioni celesti sempre un po’ maliziosi. Ci sono giorni che i nostri pelouche sono gli unici esseri viventi con cui parliamo.











Il mio pelouche preferito è una tartaruga. Lo chiamo Il Tarto. Dunque, Tarto è il suo nome.
Ieri era triste.
Gli ho chiesto: «Tarto, perché sei triste?»
«Non lo so», mi ha risposto.
«Ma una ragione ci sarà».
«Non lo so. Sono triste e basta».
«Non posso far qualcosa, Tarto, per farti passare la tristezza? »
«Sì, lasciarmi nella mia tristezza. Poi passa».
«Passa da sola? »
«Sì, arriva, violentissima, poi passa».
«Ti capita spesso, Tarto? »
«Sì, negli ultimi anni sì. Da tre anni o poco più».
«E in tre anni non hai mai capito il perché della tristezza?»
«Oh, sì, alcune cause le ho individuate. Ma non si possono eliminare. E dunque mi tengo la tristezza. Per favore, ti prego, lasciami nella mia tristezza».
«Ho capito, Tarto, ma siccome ti voglio bene e tu lo sai, mi dispiace e vorrei fare qualcosa contro la tua tristezza».
«No», e scosse il capo, «ti ringrazio, ma per favore, te lo chiedo per favore: lasciami con la mia tristezza».











E sognavo.
Ancora puro pensiero
immerso nel plasma caldo
sognavo.
E sognavo, sognavo, sognavo.
Sì, sognavo.
Sognavo di valli profonde
di grandi montagne
di spacchi improvvisi
in cui il mare s’incuneava.
E sognavo
di sole freddo
che illuminava senza fine
quei monti
quei fiordi
l’acqua riluccicante di quel mare
quei giorni che non avevano una notte
quei giorni che passavamo viaggiando
quei giorni sempre più luminosi
la notte alle spalle
lontana
sempre più lontana
da sembrare
mai esistita.











Amo percorrere in auto, ad andatura lenta, la stradina che costeggia il lago.
Avanzo lentamente, a marce basse, gettando occhiate allo specchio lucente del lago, ai riflessi del sole sull’acqua, quando c’è il sole.
Guido e getto occhiate allo specchio lucido del lago.
Guido e getto occhiate al lato opposto della strada, alle rocce del monte, all’erba, ai fiori, alle Ortensie, quando è il periodo delle Ortensie.
Durante l’estate del 2013 ci fu una vera orgia di Ortensie.
C’era una casa che era incastonata nel monte, ed era letteralmente circondata dalle Ortensie, davanti, di lato, sopra, dovunque.
Ortensie celesti, per lo più.
Ma anche Ortensie bianche, azzurre, rosse di un rosso scuro.
L’estate del 2014, un’estate senza estate, la pioggia aveva fatto marcire praticamente tutte le Ortensie.
E quell’estate, oltre ad essere un’estate senza estate, restò anche, nella mia memoria, un’estate senza Ortensie.
Non mi scoraggiavo per questi eventi.
E continuavo a percorrere a lenta andatura la stradina che costeggia il lago.
“Dopo di me”, pensavo, “continuerà il mio fantasma, il mio fantasma nella sua auto fantasma, e percorrerà sempre la stradina che costeggia il lago, almeno finché ci sarà la stradina, almeno finché ci sarà il lago”.
Almeno finché ci sarà il mondo.











Rivedo tante ombre, nell’oscurità della sera.
Rivedo ombre vive.
Ombre vive soltanto dentro la mia memoria.
Ombre vive dentro il mio ricordo.
Ombre vive dentro la mia anima.
Il vento spazza le emozioni, le sensazioni, gli attimi vissuti.
Il vento del tempo porta via momenti di vita vissuta.
Il vento porta via i mille e mille momenti di vita vissuta.
Il vento porta via momenti di vita vissuta in tanti anni.
Tanti momenti, emozioni, sensazioni, tanti attimi vissuti, non ci sono più.
Tante persone già ora non si vedono più, sono lontane, o sono cambiate, o sono comunque irraggiungibili, o non ci sono più.
Ne restano soltanto tracce.
Tracce dell’anima.