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di Gianni Nigro |
Era ‘r tempo delle ce’e splendidi giolni di sole freddo e squillante. Luce d’invelno. Luce di Livolno. Eran’ i giolni che ‘pomeriggi cominciavano ad allungassi e ‘r gatto si grattava dietr’all’orecchi promettendo pioggia e la mi’ nonna cuciva alla macchina collo scardino tra le ‘aviglie. Eran’ i giolni dell’urtima ‘nfanzia. Poi di ‘orpo tutto finì. |
Traduzione dal Vernacolo livornese Era il tempo delle ceche*, splendidi giorni di sole freddo e squillante. Luce d’inverno. Luce di Livorno. Erano i giorni in cui i pomeriggi cominciavano ad allungarsi e il gatto si grattava dietro agli orecchi promettendo pioggia e la mia nonna cuciva con lo scaldino* tra le caviglie. Erano i giorni dell’ultima infanzia. Poi di colpo tutto finì. Nota 1: le ceche sono le anguille a un particolare stadio giovanile. Nota 2: gli scaldini erano dei contenitori di metallo o più spesso di ceramica in cui d’inverno le donne mettevano della carbonella e tenevano lo scaldino tra le caviglie, quando erano sedute, per sentire meno freddo (in case in cui non c’era il riscaldamento, cosa che, a Livorno, a quei tempi, nelle case vecchie era molto frequente). |