CONTATTI
BIOGRAFIA
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GIANNI NIGRO
Sabato 23 Giugno 2018
L'altro giorno sul lago vi erano i piccolini. Si erano schiuse le uova.
Una coppia di folaghe aveva due folaghini, piccolissimi, con la testolina arancione,
grandi come palline da tennis con le piume.
Da una settimana due stupendi cigni girano la costa esibendo, ma con prudenza, tre
favolosi cignetti grigi, quelli che nella fiaba di Andersen sarebbero stati dei
brutti anatroccoli.
E infine, grande sorpresa: la mamma papera con quattro paperini. Pochi, forse, perché di solito
ne hanno molti di più.
Il tutto in una cornice di ortensie sgargianti, di rose, dei glicini di
seconda fioritura.
E mentre il mondo attorno a noi è preda della follia umana, la la Natura prosegue
tranquilla il suo percorso.
Finché ci sarà il Mondo.
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Giovedì 21 Giugno 2018
Stamani, poco prima di svegliarmi, ho sognato.
Ho sognato di correre, correre, correre.
Ero leggerissimo e correvo e volavo, e correvo e saltavo, salti giganti, parabole infinite, alte come colline.
Sognavo.
Sognavo di correre, saltare, volare.
Poi, mi sono svegliato.
A volte è più bella la vita del sogno, di quella reale.
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Venerdì 25 Maggio 2018 A Concordia, in Argentina, la mia piazza preferita è Plaza 25 de Mayo.
Piena di vita ad ogni ora del giorno, i venditori di bigiotteria con i loro tappeti, le scolaresche, ciascuna con la propria divisa,
la piazza circondata da caffetterie e punti di ristoro... e oggi, 25 di Maggio, ho la mente con tutte le lampadine accese.
Oggi ho le idee chiarisssime su come organizzare il mio futuro. Grazie, 25 di Maggio!
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Giovedì 24 Maggio 2018
Mi sono svegliato alle 5 di mattina e mi sono sentito sereno, felice. Lontani erano i neri avvoltoio
e si udivano solo gli uccellini della primavera.
Stamani hon ho 69 anni ma 19.
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Il fattore Ulisse Le ipotesi scientifiche più avanzate ipotizzano che nel
patrimonio genetico di alcuni di noi, vi sia un fattore, il
cosiddetto Fattore Ulisse, che spinge coloro che possiedono tale gene, a una ricerca perenne di
nuove coste su cui approdare.
Il Fattore Ulisse, consisterebbe in una predisposizione
genetica, e non quindi o non solo culturalmente acquisita bensì innata che ci spinge a scoprire
sempre nuovi spazi, che possono essere anzitutto nuovi territori da esplorare, ma anche un certo spirito
d’avventura, che porta a visitare e studiare nuovi campi della conoscenza, a penetrare in ambienti
sconosciuti, a esaminare fenomeni, situazioni sociali, lavori, ambienti, altrimenti difficilmente conoscibili.
Io sono certo, se esiste, di avere, geneticamente, questo Fattore Ulisse.
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Domenica 7 luglio 2017 è mancato mio zio Carlo Alberto. E con lui se n’è andata un’altra fetta dell’infanzia, dell’adolescenza. Intendiamoci,
i ricordi restano. Ma vedendolo immobile, bianco, inanimato, nella sala in cui a metà degli anni Sessanta avevo dormito in una poltrona
letto, quella volta in cui avevo stupito mio zio, mia zia e i miei cuginetti perché ero arrivato da Milano a Novara in bicicletta,
vedendolo così … come dire?, marmoreo , ho rivisto in un lampo tutti gli episodi belli, intriganti, che ci creava ad arte per
farci divertirci.
Eravamo in luglio, non andavamo più a scuola. Dopo un pomeriggio di noia, Ornella, Maurizio ed io avevamo continuato a girare nel
cortile con le nostre biciclettine, eccolo, dal ritorno dal lavoro, annunciandoci che andavamo in centro. – Vestitevi, che si a
comprare i Pippo !
Chissà cos’era il Pippo!? Dieci minuti più tardi (Novara, in fin dei conti non è poi così grande) eravamo in uno stupendo e
fornitissimo negozio pieno di giocattoli. E mio zio, a colpo sicuro, ordinò al rivenditore tre Pippo.
Altri dieci minuti dopo ci trovavamo in campagna. Il Pippo era un aereoplanino di legno leggerissimo, con un’elica di plastica e
un elastico che percorreva il velivolo per tutta la sua lunghezza. Bastava girare col dito l’elica fino a far attorcigliare a
sufficienza l’elastico per poi rilasciarla e il piccolo oggetto si librava nell’aria.
Altre volte ci sorprendeva con la sua geniale follia. Eravamo in cima a una collina romagnola, Monte Poggiolo. Avevo individuato,
nella foschia estiva, il distendersi di una città sulla pianura. Gli dissi: - Zio, quella che cos’è?
- Quella? Ma quella è … Faenza!
E, sulle note di Valencia, improvvisò a cantare – Faenza … ciò tre pulci sulla panza che mi ballano il Fox-trot …
E contemporaneamente iniziò a rotolarsi nella stoppia. E noi piccoli ridevamo da spanciarsi.
Tutto, tutto è cambiato. Anche il colore del cielo.
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Ritorno al Pavesi
Ieri sera sono tornato al Pavesi. Adesso è un grande centro sportivo, con un bellissimo palazzetto per qualsiasi sport al chiuso
attualmente dedicato al Volley e una palazzina adibita a residenza per atlete e atleti giovani che sono ospiti di una scuola di
Volley, il Club Italia, un vero vivaio per i campioni del domani
Negli Anni 60 abitavo lì, a pochi passi, esattamente in Viale Certosa al 123. E dato che per tutta l’adolescenza ho praticato
l’Atletica leggera (per poi passare al Ciclismo), quasi tutti i pomeriggi mi recavo al Centro sportivo. A quei tempi al
Pavesi c’era soltanto una pista di atletica
(che non c’è più) e una curiosa pista in cemento, a forma di velodromo, per le gare di velocità su pattini a rotelle.
Nella pista di Atletica mi sono impegnato in gare di mezzofondo, finché poi aprirono il Centro “25 Aprile” alla cui inaugurazione
ebbi l’onore di partecipare.
Si trattava di un incontro di Atletica leggera tra il Liceo Scientifico Vittorio Veneto (che frequentavo) e l’Istituto tecnico
Ettore Conti, essendo le due scuole in due edifici gemelli.
Ho trascorso molti decenni senza più tornare al Pavesi e poi, i casi della vita, abbiamo iniziato a seguire le partite di
Volley per rompere la monotonia dell’età della pensione. Pur avendolo praticato solo al Liceo, il Volley lo conoscevo bene
(a quei tempi lo chiamavano “palla a volo”) perché mia figlia è stata una pallavolista per qualche stagione, a livello giovanile.
E così, ieri, in una sera uggiosa, mi sono ritrovato, seguendo le vie del Volley, proprio al Centro sportivo Pavesi, dopo tanti
anni di oblio.
Ieri sera, prima della partita, ho voluto girovagare un po’ attorno al campetto dove c’era la pista, e dicevo “da un momento
all’altro appare il me stesso da giovane, tiratissimo e in linea perfetta, in tenuta da Atletica leggera … “
No, non ho incontrato me stesso da giovane. Ma ritrovare quei luoghi, seppur così cambiati, è stato bello. Molto bello.
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VENT'ANNI
A volte senti dire “Io ho avuto un’infanzia infelice, un’adolescenza difficile!”, e se sei una persona sensibile, ti dispiace, vorresti in qualche modo dimostrarti solidale.
Se ripenso alla mia infanzia, alla mia adolescenza, ai miei vent’anni, non posso che ammettere che … io ho avuto la più felice delle infanzie, un’adolescenza divertente e spensierata, e vent’anni stupendi.
Il problema è che quando il caso (la sorte, il destino) ti ha regalato una partenza così bella, poi tutto quello che viene dopo, le ferite, le amarezze, i traumi che inevitabilmente prima o poi la vita ti darà, faranno molto più male.
Insomma, un conto è inciampare e cadere, un conto è cadere dal primo piano!
Le ferite che fanno più male sono comunque quelle in cui riconosciamo una nostra responsabilità. Sì, voglio dire, se abbiamo sbagliato, se abbiamo favorito il fatto di ferirsi, per inesperienza, per mancanza di carattere, la botta è ancora più forte.
Nella mia vita ho fatto molto ciclismo. Anzi, posso senz’altro dire che il ciclismo è stata la passione più costante della mia vita. E dunque, spero mi perdonerete se utilizzo l’esempio ciclistico. Se si cade in maniera del tutto casuale, ci si rammarica e si tenta di guarire al più presto. Ma se si cade perché abbiamo sottovalutato la strada bagnata dalla pioggia, la ripidità della curva bagnata, l’asfalto che sapevamo essere particolarmente liscio, allora il rimorso ci attanaglia.
Oltre che al ciclismo, ho dedicato la mia vita a commettere piccoli sbagli. A volte mi dico: ma mi divertivo così tanto a sbagliare?
In realtà più si vive e più si sbaglia. Troppo facile dare sempre la colpa agli altri. Le persone sono quello che sono, ciascuna con i propri meriti e i propri difetti.
Sbagliare è anche non capire per tempo cosa c’è nella mente degli altri.
Non è che voglia lamentarmi all’infinito, per carità. Però il fatto di scrivere le proprie lamentele su di un foglio, può aiutare. In fin dei conti scrivere è talvolta come confessarsi, a un confessore, a un amico, a un’amica, a una persona terza.
E, tanto per sfogarsi, io ho iniziato molto presto a sbagliare, a valutare in maniera errata le persone.
Che bella età i vent’anni! Però è proprio a quell’età che ho iniziato a commettere errori. Certo, per una vita facile come era stata la mia fino a quel punto, era magari anche difficoltoso imparare a scegliere.
A vent’anni (dico venti, ma potrebbero essere sedici, diciotto, ventuno …) si inizia a dover fare delle scelte.
Ripeto, io sono stato molto fortunato, e durante l’infanzia e l’adolescenza, i mei genitori, molto premurosi (forse troppo?) sceglievano per me. Loro sceglievano e io non avevo problemi.
Sceglievano tutto. In quale scuola dovevo andare, in quale Liceo, che sport dovevo fare …
La mia prima vera scelta fu di praticare il ciclismo, contro la volontà paterna che vedeva l’eccessivo pericolo in quello sport.
Fu la mia prima ribellione. E il ciclismo mi ha dato tanto, è una scelta della quale non mi sono mai pentito.
La mia seconda semi-ribellione fu scegliere la facoltà di Medicina e Chirurgia. Era una scelta ottima, favorita da mia madre ma un pochino contrastata da mio padre, che, chissà poi perché, riteneva la vita del medico poco appagante e di grande sacrificio.
Nel tempo, nel breve tempo dei miei primi anni di Medicina, quel pare contrario di mio padre lavorava dentro alla mia mente, mi rodeva come un tarlo, finché, alle prime vere difficoltà, iniziai a pensare di mollare.
In effetti trascorrevo molto più tempo a divorare libri di letteratura che testi di Medicina.
Sì, avere vent’anni è fantastico. Su Facebook qualcuno ogni tanto invita a riascoltare un brano musicale di quei tempi. Avere vent’anni è fantastico, ma è anche l’età in cui si inizia a commettere grandi errore. Magari pochi, un paio, ma giganteschi.
Uno di quei pochi errori giganteschi fu di abbandonare gli studi in fase già abbastanza avanzata.
Queste prime giornate di primavera mi riportano alla mente tanti, troppi ricordi.
Spensierato? Non più, non come quando vivevo l’età felice dell’infanzia. Non come quando ero adolescente, in cui certo qualche pensiero iniziavo ad avercelo, qualche emozione forte, qualche delusione cocente, qualche problema di scelta magari da prendere assieme a mia madre, che a quei tempi era più amico rispetto a mio padre.
Però vent’anni per me restano anche il momento felice di prendere la macchina e partire, finalmente libero, finalmente capace di volare fuori dal nido.
Partivo, e tornavo proprio nei luoghi dell’infanzia, nel profumo di pini e di salmastro, nel suono dei gabbiani e delle onde contro gli scogli, nel sapore della focaccia di piazza Roma, nei colori dei tramonti sul mare.
Partivo ed ero felice.
E queste sono le sensazioni che vorrei mi restassero dell’età dei vent’anni.
Queste.
Solo queste.
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Mio padre, oltre ad essere il migliore possibile dei padri, oltre che essere un uomo di rara intelligenza, era anche il
fratello che non ho avuto, era il mio migliore amico, era la base della mia vita. Quest'anno avrebbe compiuto 100
anni e io solo so quanto avrebbe desiderato arrivarci.
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PANTANI
Già. Marco Pantani. Quello sì, che era un corridore. Non attendeva gli ultimi 500 metri della salita, per scattare.
Non attendeva gli ultimi 500 metri dell’ultima salita, per scattare. Non saliva coi rapporti da cicloamatore. Non
tirava mezzo metro per pedalata.
Pantani partiva all’improvviso, dopo aver riposto il cappellino nella tasca posteriore della maglia. Partiva, con
5 o 6 metri per pedalata, scattava, come se di lì a poco ci fosse un traguardo volante.
Scattava, come se ad ogni cento metri ci fosse un traguardo volante. Scattava, e di nuovo scattava, demoliva gli
inseguitori, volava via e nessuno lo avrebbe più rivisto prima dell’arrivo, o magari in albergo.
Ricordo quando gli saltò la catena. Dopo aver risistemato da sé la bici (il meccanico sarebbe arrivato troppo tardi,
inutile attenderlo), ripartì, in fondo al gruppo che era sgranato lungo la salita. Risalì tutto il gruppo, a velocità
doppia, tripla. Arrivò alla testa del gruppo e bruciò i primi sul traguardo.
Questo era Pantani.
Attaccava sulla penultima salita e proprio su quella gli avversari consumavano ogni loro risorsa per limitare i danni,
per illudersi di riprenderlo, o al più, perdere poco.
Pantani utilizzava la penultima salita per togliere ogni energia agli avversari, e l’ultima salita, per infliggere
distacchi incolmabile.
Pantani era fragile. Quando cadeva, si rompeva. Quando perdeva, si deprimeva. Quando venne cacciato dal Giro, perse il
gusto per la vita.
Marco Pantani, al di sopra di ogni classificazione.
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DIALOGO CON IL TARTO
Il mio pelouche preferito è una tartaruga. Lo chiamo Il Tarto.
Dunque, Tarto è il suo nome.
Ieri era triste.
Gli ho chiesto: «Tarto, perché sei triste?»
«Non lo so», mi ha risposto.
«Ma una ragione ci sarà».
«Non lo so. Sono triste e basta».
«Ma non posso far qualcosa, Tarto, per farti passare la tristezza? »
«Sì, lasciarmi nella mia tristezza. Poi passa».
«Passa da sola? »
«Sì, arriva, violentissima, poi passa».
«Ti capita spesso, Tarto? »
«Sì, negli ultimi anni sì. Da tre anni o poco più».
«E in tre anni non hai mai capito il perché della tristezza?»
«Oh, sì, alcune cause le ho individuate. Ma non si possono eliminare».
E dunque mi tengo la tristezza. Per favore, ti prego, lasciami nella mia tristezza».
«Ho capito, Tarto, ma siccome ti voglio bene e tu lo sai, mi dispiace e vorrei fare qualcosa contro la tua tristezza».
«No», e scosse il capo, «ti ringrazio, ma per favore, te lo chiedo per favore: lasciami con la mia tristezza».
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«L'importante non è vincere, ma partecipare», disse Eddy Merckx dopo il suo settimo trionfo nella Milano - San Remo.
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«Facile», disse Giotto. E disegnò il cerchio perfetto.
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A Milano nessuno muore di reumatismi.
Tutti, però, prima o poi, muoiono ... con i reumatismi.
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Il mio mare
Oggi sono tornato.
Sono tornato nei luoghi della mia infanzia.
Sono tornato davanti al mio mare.
Ho posteggiato l’auto davanti al mio mare. Lo vedevo, attraverso il vetro screziato di pioggia. Sì, perché Livorno è bella, quando piove.
Da giovane, o meglio da molto giovane, insomma quando ero adolescente, mi dilettavo a creare filmini. A quei tempi non c’era neanche il Superotto. Le pellicole erano di otto millimetri. Più tardi, sul finire degli anni Sessanta, arrivò il Superotto e l’ultimo mio film, a cui detti il titolo “Il vento”, fu il mio primo e ultimo filmino in Superotto e mi ricordo la scena in cui, neanche ventenne, mi buttavo sul letto con un giovane sorriso, e dicevo: «Però, Livorno è bella, quando piove».
Sono tornato, sotto una leggera pioggerellina delicata.
Il parabrezza è costellato di gocce ma non impediscono la vista del mio mare.
Mi portarono via dal mio mare quando avevo nove anni. Poi, però, fu un continuo ritorno.
Tornavo, coi miei genitori, giovani e belli (ai miei occhi erano i più belli del mondo).
E tornavamo in ogni occasione, per Natale, per Pasqua, con il ponte tra la festività del 25 Aprile e quella del Primo Maggio, poi d’estate, e restavo con mia nonna da metà Giugno fino alla ripresa della scuola.
Comperai la mia prima macchina risparmiando anche sui biglietti del tram, traversando Milano a piedi (che camminate!). Era una 500 usata, e la prima gita ebbe come obiettivo Livorno, e la prima sosta a Livorno, ancor prima di andare a casa di mia nonna, era … davanti al mare.
Oggi sono tornato.
Unico rammarico, è l’ottundimento delle emozioni. Sì, da qualche anno la mia emotività si è come appannata.
Per tutta la vita avevo sempre vissuto con la massima intensità ogni sensazione olfattiva, ogni colore, ogni folata di vento sulla pelle.
E tutte le volte che tornavo a Livorno, già molto prima di arrivare, al rivedere i cipressi e i pini, mi sentivo le palpitazioni al cuore, emozioni violente.
Passati i sessanta la mia emotività ha subito un inspiegabile ma del tutto inarrestabile e progressivo rallentamento.
Sono tornato, senza scendere subito dalla macchina. Ho calato il finestrino, per respirare il salmastro.
Sì, perché anch’io ho le mie ritualità.
È un po’ come nel Volley: a un certo punto vedi le atleti che iniziano tutta una serie di ritualità, le due squadre sfilano contro la rete dandosi il cinque a una mano, poi ogni giocatrice da il cinque a due mani con gli allenatori, quindi si danno il cinque tra di loro, e infine, durante la chiamata delle atlete che vanno a iniziare la partita, ciascuna delle prescelte da il cinque a due mani agli allenatori e alle compagne di squadra. Vi sono anche altre ritualità, che variano da squadra a squadra, come il riunirsi in cerchio e declamare formule di esultanza o anche, come ho visto fare al Club Italia, una curiosa danza, tutte in cerchio largo, le braccia delle une sulle spalle delle altre, un passo, due passi, tre passi, stringendo progressivamente il cerchio, una danza speciale, che annuncia l’imminente battaglia.
E penso: che bello essere giovani!
Conoscevo una signora anziana, una donna di campagna, analfabeta ma arguta nei suoi pensieri, che soleva ripetere: «quando si diventa vecchi, arrivati a un certo punto, sarebbe bello cominciare a ritornare indietro».
Di solito si suol dire: «Vorrei rivivere conservando però la memoria delle esperienze già vissute», e poi si aggiunge: «Così non ripeterei gli stessi errori».
Un celebre scrittore anglo-americano (era William Faulkner?) amava scrivere che le persone passano la loro vita a ripetere sempre gli stessi errori. Dunque, in realtà, stando a Faulkner, l’esperienza non servirebbe a nulla.
Io ho trascorso la mia vita a tornare al mio mare. Ma non credo sia un errore, forse è una sofferenza per il portafogli, visto il caro-benzina e il caro-autostrada. Comunque è un piacere, un grande piacere.
Respirare il salmastro del mare, l’odore dei pini, sentire la carezza del vento, udire l’infrangersi delle onde contro gli scogli a riva.
Vent’anni fa ho fatto un viaggio fino in cima alla Norvegia, dormendo in auto, svegliandoci a un passo dal mare, mangiando davanti al mare le cose comperate nei supermercati. Superata la Germania, tutto il resto del viaggio era un percorrere strade che costeggiano il mare (Germania del nord, Danimarca, Svezia, Norvegia. E sempre ogni città, ogni villaggio, era una località di mare, di grida di gabbiani, di odore penetrante di mare e di alghe.
Quella volta mi venne in mente una frase che non mi ha lasciato più: le città di mare, a qualunque nazione appartengano, in realtà fanno parte di una repubblica virtuale, la repubblica delle città di mare.
Sono tornato, come sempre, e come sempre ripartirò.
A un chilometro alle mie spalle c’è mio padre. Là, nel giro di pochi metri c’è anche mia nonna, mio nonno, i miei zii, mio cugino Paolo.
A due passi da me c’è una baracchina dove mi aspetta un cappuccino fumante (che purtroppo devo prendere decaffeinato). E poi, magari, chissà, anche un ponce alla livornese? Il ponce alla livornese consiste in un caffè forte, corretto da rum e dal Sassolino, un liquore dolce simile alla sambuca o all’anice, ma al tempo stesso un po’ diverso. Ogni volta affronto il problema di domandare «un ponce, ma decaffeinato». Non è un problema.
Il problema è resistere al maritozzo.
L’importante è camminare. Non ho fatto, forse, trecento chilometri per camminare sul mio lungomare? E deviare in spiaggia per calpestare i cumuli di alghe che l’ultima mareggiata ha rovesciato a riva?
Sono tornato. Ma sono tornato soltanto per ritrovare il mio mare, il salmastro, i pini, i gabbiani, il ponce?
C’è un racconto di Kafka in cui anche lo scrittore di Praga torna a casa, nella casa dei suoi genitori, e il racconto si conclude quando la porta della vecchia casa dell’infanzia si apre e l’autore pensa che forse chi gli avrebbe aperto sarebbe stato lui stesso.
Sì. Forse. Forse è proprio così.
Sono tornato … ancora una volta … a ritrovare me stesso.
Davanti al Mio Mare.
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Le pozzanghere di Livorno
A Livorno certe pozzanghere si formano a Novembre e le ritrovi ancora a Marzo. Sono pozzanghere stupende, riflettono il cielo, sono lamine di cristallo, specchi dell’anima.
Avevo cinque anni e mi portavano quasi tutti i giorni a Villa Fabbricotti. Era facile, per mia madre e mia nonna, perché abitavamo in Piazza Roma, da tempo ribattezzata Piazza Matteotti, al primo piano di una casa che poi hanno sostituito con una palazzina in cui vi è una banca, e da lì al cancello di Villa Fabbricotti sono proprio due passi.
Mi divertivo a riempire intere scatola da scarpe con le ghiande. I miei, poi, non sapevano dove mettere tutte quelle scatole.
Giravamo tutta la Villa in pochi minuti. Vicino alla piccola montagnetta si formava tutti gli inverni una pozzangherona, larga molti metri e profonda anche venti centimetri. Mi affascinava, quel laghetto.
Il fenomeno delle pozzanghere che non si asciugavano fino all’avvento dei primi veri caldi si verificava un po’ dovunque, a Livorno. Probabilmente è il terreno, che permette questo evento.
I miei giovani e innocenti occhi restavano incantati da quello spettacolo.
Tanti, troppi anni sono passati da quando ammiravo quegli spettacoli con lo sguardo dell’infanzia.
Pavese diceva che tutto ciò che si incontra durante l’infanzia ci appare come un Mito, così come per i popoli preistorici diventava Mito ogni accadimento insolito, inspiegabile.
Pavese restò un bambino molto oltre la maturità e forse anche per questo la delusione lo assalì violentemente nel momento in cui, tardivamente, si rese conto che la realtà era molto più cruda di ciò che ci sembra in quel sogno ovattato che è l’infanzia.
Mi sono sempre sentito vicino alla sensibilità di Cesare Pavese. E sogno, di giorno e di notte, il paradiso di quegli anni lontani.
Questa notte ho sognato l’emozione di una imminente gita con i miei genitori. Ero emozionatissimo. Ma poi insorgeva sempre un problema che impediva la partenza: non riuscivamo a trovare la macchina, parcheggiata chissà dove, poi mia madre aveva dimenticato la valigia, mio padre era sparito … insomma, era come se il mio inconscio volesse avvertirmi che quella gita era impossibile, che mia madre aveva un’altra età e mio padre non c’era più. Infine mi sono svegliato, madido di sudore.
E, ripensando al sogno, realizzando che nulla era esistito dell’atmosfera magica, dell’emozione della gita imminente con i miei genitori, mi aveva rapito un devastante senso di amarezza.
Questa è la vita, una parabola che inizia con le emozioni palpitanti dell’infanzia, e cala piano piano verso la presa di coscienza della realtà, in un certo senso come le pozzanghere di Livorno, che nascono magicamente con le prime piogge fredde, vivono il loro splendore incantato e si dissolvono a poco a poco, senza più riflettere il fascino infinito del cielo.
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Una Domenica Di Sole
In un mare sconfinato
di tristezza
di malinconie
per l’infanzia perduta
per la vita passata
laceravo me stesso.
Ma una mattina
una Domenica mattina
Rosaly
con forza sovrumana
mi estrasse dal
nulla
in cui ero sprofondato.
Si parte!
Come ai tempi d’oro
degli anni giovani.
Si parte!
E in un lampo
fu mare nuovo
e antico
frizzante
una domenica di sole
una domenica fresca
luce di Gennaio
come ai tempo d’oro
degli anni giovani.
La Terrazza di sempre
Il nuovo acquario
la gente in festa di sempre
le nuove vetrate
i sapori di sempre
la nuova ventata di vita
di voglia di vita.
Una splendida
Domenica di Sole.
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VOLLEY, NUOVA AVVENTURA
Domenica 15 Gennaio 2017, al Pala Panini di Modena, io c’ero. Accanto a me c’era anche Juanita, da me affettuosamente
rinominata Rosaly. Lei, anzi, si è divertita più di me e ne ha approfittato per perdere due chili,
tifando e agitandosi assieme a tutto il gruppo degli AdF, gli Amici delle Farfalle.
Eh, sì, perché è stata veramente una domenica bestiale.
Il mio primo amore, nel Volley femminile, è stato il Club Italia. Già, perché avevamo seguito le pre-olimpiche,
questa Nazionale colorata, come l’aveva definita efficacemente la Diouf. In particolare, mi ero
entusiasmato per le performance atletiche di Paoletta Egonu, favolosa pelle scura e agilità e potenza di una pantera
nera. E poi le altre, Sylla, Bonifacio, eccetera.
Dunque, la mia intenzione, all’inizio, era di seguire le partite del Club Italia, questa specie di mini-nazionale,
le ragazzine terribili, come le avevano chiamate i giornalisti.
La prima partita di campionato si teneva al Palayamamay di Busto Arsizio, il grande Tempio del Volley.
Un mese prima avevamo fatto una gita, partendo da Milano dove abitiamo, per rintracciare dove fosse questo misterioso
oggetto di culto, il mitico Palayamamay, e avevo sbagliato strada
per ben due volte, la prima uscendo allo svincolo di Busto, la seconda uscendo a quello di Legnano. Finalmente, dopo
labirinti inestricabili, ripartendo dalla A4 in direzione Laghi, siamo usciti a Castellanza, e da lì arrivare al Palasport
Maria Plantanida ribattezzato Palayamamay è stato un gioco da ragazzi.
Io avevo in testa maps. Per questo, non uscendo da Castellanza, mi era impossibile far coincidere il navigatore col
modello di percorso che avevo in mente.
Con le domenica (e a volte i sabato) di Volley, entrambi fummo catturati dall’aria di festa della partita. Quelle sì
che erano domeniche!
L’attesa in macchina, controllando se in tasca avevo i biglietti comperati giorni prima in Piazza del Duomo, spiando
se aprivano il cancello, e poi fiondarsi verso la nuova avventura, due anziani arzilli (Rosaly più lenta ma meno a
rischio di cadute rispetto a me), e prendere emozionati la birra nel bicchierone di plastica (Rosaly era la birrista,
io la seguivo a ruota), Con la farfalla vivente che ci veniva incontro (la farfalla vivente è in effetti
una ragazza dentro a una grande maschera più o meno somigliante a una farfalla)
e tutto era ebbro di allegria e finalmente
vedere dal vivo le nostre protagoniste tante volte seguite in tv!
Paola Egonu, che sfiorava il cielo, lì a un metro, che rispondeva al saluto di Rosaly! E io che fotografavo entrambe
col cellulare, su precise disposizioni di Rosaly.
Automaticamente, inevitabilmente, ci innamorammo anche della UNET YAMAMAY BUSTO ARSIZIO, la mitica Diouf, la nuova
Martinez, le tosche Stufi e Pisani (eh sì, della mia amata Toscana ce n’erano di più nella UYBA che nelle due squadre di
Firenze e Scandicci!).
In breve, siamo diventati due scatenatissimi Amici della Farfalle. Sfegatati sostenitori della Unet Yamamay Busto
Arsizio, al punto che Rosaly mi ha chiesto in regalo la maglietta della UYBA e ora ha le firme di Stufi, Signorile,
Diouf, Martinez e altre.
E l’avventura continua.
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VOLAVO A 120
Volavo a 120 lungo l'Aurelia nel cuore nero della notte
Volavo a 130 nel cuore dell'estate
Volavo a 140 sopra la stretta scia d'asfalto
poi fu Maremma
magica e buia
e Grilli e San Guido e La California
tra occhi di lupo e zampe di cinghiale
Volavo a 150 lungo la nera striscia d'asfalto
e poi fu il Romito
curve a picco sul mare
Volavo a 150 in curve e discese
in vortici infiniti
e poi fu
Livorno.
Livorno
e le sue luci gialle
le finestre spente
le luci deboli dei lampioni di Livorno
le persiane chiuse di Livorno
gli odori e i suoni assenti e gli odori pieni
di Livorno.
Ed ero colmo
di felicità.
PS.: qualche giorno più tardi mi arrivò una multa
salatissima per eccesso di velocità.
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Amo percorrere in auto, ad andatura lenta, la stradina che costeggia il lago.
Avanzo lentamente, con la mia vecchia auto, a marce basse, gettando occhiate allo
specchio lucente del lago, ai riflessi del sole sull’acqua. Almeno quando c’è il sole.
Guido e getto occhiate al lato opposto della strada, alle rocce del monte, all’erba,
ai fiori, alle Ortensie multicolori, almeno quando è il periodo delle Ortensie.
Almeno, quando le Ortensie non marciscono per la troppa pioggia.
Durante l’estate del 2013 ci fu una vera orgia di Ortensie.
C’è una casa che è incastonata nel monte, e quell’estate era letteralmente
circondata dalle Ortensie, davanti, di lato, sopra, dovunque.
Ortensie celesti, per lo più.
Ma anche Ortensie bianche, azzurre, rosse di un rosso scuro.
L’estate del 2014, un’estate senza estate, la pioggia aveva fatto
marcire praticamente tutte le Ortensie.
E quell’estate, oltre ad essere un’estate senza estate e senza Ortensie,
restò, nella mia mente anche un’estate senza pace.
Nel sole raro di quei giorni, tutto era strano, diverso, assopito. E sotto la
frequente pioggia, tutti i fiori si intristivano.
Io stesso mi sentivo strano, a causa degli eventi drammatici che avevano colpito
Rosaly, vedevo nella tristezza delle Ortensie la mia stessa tristezza.
Vedevo, nel grigio del cielo, l’umore della mia mente.
In quella estate senza estate, capivo come nella vita le poche certezze
possano sfuggire dalle dita.
In quella estate senza estate mi sentivo un piccolo petalo di Ortensia,
in balìa degli eventi.
E nei momenti in cui cercavo disperatamente di ritrovare un minimo di
serenità, tornavo al lago, a percorrere con lentezza la stradina che
costeggia il lago, anche perché così tentavo di affogare nel lago ogni angoscia.
Poi l’estate senza estate finì, ma non le ansie.
Con la primavera tornò una relativa serenità.
E continuavo a percorrere a lenta andatura la stradina che costeggia il lago.
Dopo di me, pensavo, continuerà il mio fantasma. Il mio fantasma nella mia auto
fantasma, e percorrerà sempre la stradina che costeggia il lago, almeno
finché ci sarà la stradina, almeno finché ci sarà il lago.
Almeno finché ci sarà il mondo.
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9 Luglio 2016 - Ore 9.40
Per tanti e tanti anni, praticamente da quando ero adolescente, l’autunno mi piaceva.
Tutti mi criticavano.
Dicevano che l’autunno era triste. Ma a me piaceva. Così come mi piacevano le
giornate di pioggia, indipendentemente dalla stagione. Dell’autunno, però,
adoravo tutto, le foglie gialle, i viali di alberi con le foglie ingiallite,
le foglie gialle dei ginkgo biloba e tutto il resto.
E mi piaceva l’inverno. Amavo le giornate fredde, amavo la neve, amavo le
luminarie, l’attesa delle feste, il lento scorrere del tempo nelle giornate
scure…
Ma tutto questo è finito. Di colpo. Meglio, dirà qualcuno. Forse quasi tutti.
Meglio o peggio che sia, adesso io l’arrivo del freddo e del buio, non lo
sopporto più!
Già a novembre comincio a intristirmi. E non vedo l’ora che sui fianchi dei
monti, che sui bordi dei laghi, tornino a rifiorire le Ortensie!
Le Ortensie, infine, sono rifiorite. Già dai primi di Giugno, qua e là.
Ma il sole impietoso di queste due ultime settimane ne hanno già bruciate
parecchie.
Per carità, non vorrei ripetere la vecchia tiritera "le stagioni non esistono più".
Ma il clima è cambiato. Per davvero che il clima è cambiato! A metà Marzo ero
vicino alle alpi ma neanche troppo vicino, ed è venuto giù un metro di neve, in un'ora.
Poi scoppia un'estate a fine Giugno, che un tempo con tanta violenza arrivava
soltanto nella seconda metà di Luglio.
Pensa positivo, Gianni. A volte però proprio non ci riesco.
Ma come si fa, dico io, a pensare positivo aprendo il telegiornale!
Apro il telegiornale e mi deprimo. No, molto meglio tornare al mio
sito, che per un intero anno avevo lasciato là, giacente sull'hard disc
di un server da qualche parte delle colline toscane.
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8 Luglio 2016 - Ore 9.30
Novità. Stamani il cielo era grigio. Ma la fruttivendola era sconvolta e
non aveva il fiato per pronunciare la parola "caldo". In realtà non c'è poi
tutto questo caldo. Il termometro parte dai 20 della notte e alla mattina presto
è a 22 gradi centigradi. Poi sale lentamente e a metà pomeriggio raggiunge i 30°,
al massimo (e nei giorni precedenti, i 32).
La percezione termica di afa è determinata dal fatto che la terra, il verde,
tutto è intriso d'acqua e dunque anche l'aria che respiriamo, questa
umidità altissima, che ci rende simili a pesci fuori dal nostro abitat
naturale e ci fa boccheggiare.
Ma domani sì, che è un altro giorno.
Tra "umani" ci diciamo l'un con l'altro di pensare al futuro, di lasciare perdere
il passato. Già. Ma per un anziano che cos'è il futuro? Tra le tante cose belle, c'è anche
la diminuzione della vista, dell'udito, della memoria, delle capacità motorie eccetera.
Per non parlare di malanni sempre in agguato.
"Pensa positivo", diceva Jovanotti. Però io riesco a capire tutti coloro che vedono
nel futuro qualcosa che continua. Mio padre non era d'accordo e io gli davo ragione, a
quei tempi. Mio padre diceva che dopo la sua morte non gli sarebbe importato più
nulla di nulla. Sì, perché di lui, diceva, non sarebbe rimasto niente.
Rosaly la pensa diversamente. Rosaly pensa che mio padre sia lassù, e che tenti
di guidarmi. Io comincio a pensare come Rosaly, che lui sia da qualche parte,
ma per carità, che eviti di farmi fare certi sbagli come ha fatto quando era
quaggiù.
In un romanzo di fantasia, che per ora esiste solo in digitale e in alcune copie
che ho stampato e nascosto, immagino che ci sia un'altra dimensione, dove vanno
le "anime" lasciando quaggiù solo la parte materica della loro persona.
Ebbene, nessuno può essere sicuro che esista un al di là, ma
nessuno ha prove reali che non esista. E allora mi piace pensare (illudermi?)
che un al di là esista, che in qualche modo la vita continui, sotto altre
forme, forme immateriche ...
che la mia auto fantasma ....
sarà fatta di vento...
Che io
sarò fatto di vento
in un volo sereno senza fine.
Comunque ... vedremo.
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7 Luglio 2016 - Ore 10.15
Compro il quotidiano alle sei di mattina, come sempre. E chiedo alla giornalaia
del Centro America: "Lei ha dormito, stanotte?"
"Non ho dormito NADA!!!"
Chiedo ad altre persone, in panetteria, in un paio di bar.
Nessuno ha dormito, a causa del caldo afoso, di quella che un tempo
si chiamava canicola (adesso certi termini italiani che non si usano più,
li ritrovo sui giornali del Ticino. Là parlano ancora un vetero - italiano).
Scendo alle 10 in farmacia e anche la farmacista mi conferma che non ha
chiuso occhio. "Quando ha finalmente suonato la sveglia" mi dice,
"ho pensato che finalmente potevo svegliarmi ufficialmente".
Oh, la mia estate del 2014! Quell'estate senza estate. Sì, piena di
pioggia, piena di lacrime, piena di dolore. Ma tanto fresca!
A volte mi chiedo: ma sono scemo o mangio i sassi?
Bene, domani è un altro giorno.
Di afa.
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6 Luglio 2016 - Ore 7.20
Verrà un giorno
in uno spazio senza tempo
in un tempo senza spazio
in cui veleggerò
più leggero dell’aria
sempre a bordo della mia auto
sempre lungo la stradina
che costeggia il lago.
La mia automobile
sarà fatta di vento.
La stradina attorno al lago
sarà fatta di vento.
E io
sarò fatto di vento.
E sarà un sereno volo
senza fine.
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5 Luglio 2016 - Ore 10.10
Anche oggi per un attimo ho sfiorato la voglia di un giro attorno al lago.
Il mio amato giro attorno al lago. Schegge di guerra schizzano ancora in tutto il globo.
Ma in questa stanza in penombra, c'è pace. Bello sarebbe che la pace di questa
stanza si estendesse, come per magia, all'intero mondo.
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5 Luglio 2016 - Ore 9.40
E il lago, nella sua fresca indifferenza, attende, lontano.
Non so se si chieda quando tornerò a girare intorno al lago. Ma so che scriverò
tutto quello che la vita ha lasciato in me. So che scriverò tutte le tracce che
la vita ha lasciato indelebili nella mia anima.
So che scriverò tutte, assolutamente tutte le mie ... tracce dell'anima.
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5 Luglio 2016 - Ore 9.30
Oggi il cielo è meno grigio e non sono stato schiacciato dai ricordi.
Oggi mi sono svegliato felice.
Oggi è un buon giorno.
Nonostante il mondo.
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4 Luglio 2016 - Ore 16.15
Oggi il cielo resta grigio, in un grigio giorno di Luglio. Riaffiorano lontanissimi
ricordi, di sogni che si perdono nelle nubi del passato. I ricordi si accumulano
nella mente. L'importante è non restarne schiacciato.
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4 Luglio 2016 - Ore 11.45
Oggi il cielo è grigio, un grigio cielo di Luglio. E per un attimo ho sfiorato la
voglia di un giro attorno al lago. Il mio solito amato quasi sempre uguale e sempre
diverso giro attorno al lago. Schegge di guerra schizzano in tutto il globo. Dalla
finestra vedo soltanto fiori gialli e un tranquillo grigio cielo di Luglio.
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Cavalcando le onde della memoria
Il mio primo viaggio avvenne in treno, in due tratti, d Livorno a Firenze e da Firenze a Faenza.
Mi accompagnava mia madre e soprattutto la seconda tratta era veramente avventurosa. Il binario si
inerpicava tortuosamente attraverso l’Appennino, un Appennino poco abitato e ancor meno conosciuto
dal turismo.
La meta era un’antica vecchissima casa di campagna appartenuta da sempre alla famiglia di mia
madre, dove avevano sfollato dalle città durante la guerra e dove poi, dagli anni Cinquanta,
si ritrovavano tutti, d’estate.
Da quel dì, ad ogni mese di settembre, tornavamo, mia madre ed io. Mio padre, in effetti, non
veniva volentieri, non si sentiva particolarmente attratto dai parenti di mia madre.
In ogni caso, grazie ad un’eredità, nel 1956 mia madre poté comprarsi una Seicento e da quel
momento il viaggetto di settembre in quel di Romagna avvenne automobilisticamente.
Erano viaggi lunghi, interminabili, prima percorrendo una strada strettissima che congiungeva
Livorno con Firenze e che, proprio per la pericolosità della via, veniva chiamata l’Arnaccio.
Poi seguiva l’interminabile attraversamento di Firenze, e infine si varcava l’Appennino
zig-zagando per i tortuosi tornanti del Muraglione, passo che era così chiamato perché in
cima, proprio al Passo, c’era, e c’è ancora, una grande muraglia al centro della carreggiata,
fatta costruire dal Granduca di Toscana.
Ad ogni tornante c’erano delle croci, a ricordare incidenti terribili, e mia madre o entrambi
i miei genitori ne erano piuttosto sconvolti. Ma una settimana dopo si tornava alla nostra
Livorno, ed era nuovamente casa, nonni, cugini, e mare.
Sempre negli anni Cinquanta e ancora naturalmente con i miei genitori, vi fu un viaggio a
Venezia, di cui ho pochissimi ricordi. Non avevo ancora cinque anni e più volte mia madre
mi raccontò di terribili capricci da me fatti ad uno dei ristoranti più rinomati di Venezia,
che mio padre frequentava dando fondo a tutti i risparmi che avevamo, nella speranza di agganciare
l’amicizia di qualche personaggio importante dell’ambiente artistico. Pare che io abbia urlato
per una buona decina di minuti perché la pastasciutta non aveva abbastanza ragù (ero abituato
alla pasta condita generosamente da mia nonna) e soprattutto dal fatto che il bicchiere d’acqua,
con l’aggiunta di un velo di vino, non fosse sufficientemente rosso. Mi misi a gridare: “Più
vino, più vino!!!!” E tutta la gente si voltava, chiedendosi che genitori fossero quei degeneri
che davano il vino a un bambino di quattro anni. Il viaggio che concluse il periodo livornese
della mia vita avvenne in gennaio, nel 1959. Avevo quasi dieci anni e non mi rendevo conto che
un’epoca si stava concludendo. Non mi rendevo conto che quei trecentodieci chilometri, che a
percorrerli si impiegava un’intera giornata, lungo le strade millenarie dell’Aurelia, del Passo
della Cisa e dell’Emilia, avrei perso per sempre la frequenza quotidiana dei miei nonni e dei
miei cugini. Ma mio padre, nella sua cocciuta e prepotente volontà di portarci a Milano per
intraprendere una carriera d’artista, non si poneva minimamente questo problema.
I viaggi successivi, in auto o in treno, furono a tema unico: sempre Milano – Livorno e
ritorno, con unica variazione estiva alla casa di campagna in Romagna, dove forse trascorrevo
i giorni più sereni e tranquilli dell’anno.
Erano comunque molto lontani i viaggi che avrebbero enormemente allargato i miei orizzonti.
Per un’inspiegabile chiusura della mia mente, trascorsi tutti gli anni Settanta e la prima
metà degli anni Ottanta a tornare, in auto o in bici, nei luoghi dell’infanzia, Livorno e
Romagna. Poi, all’improvviso, un quasi casuale viaggio a Monaco di Baviera, mi obbligò a
scoprire che al di là delle Alpi c’era un mondo, immenso, tutto da scoprire. E il ritmo delle
novità fu rapidissimo. Berlino (c’era ancora il muro, anzi i due muri), Amburgo, Lubecca,
Friburgo, Colonia, Kassel.
Dopo una lunga pausa, il mio eterno vagabondaggio riprese, e questa volta su larga scala,
con l’aggiunta di Olanda e Danimarca, Francia e Inghilterra, Svezia e Norvegia, e infine
Argentina.
Certo, il mondo è ancora vastissimo e tutto da scoprire, ma i viaggi costano e l’età avanza.
Ma il numero e la qualità delle avventure da raccontare sono talmente tante, che pian
pianino riuscirò nell’intento.
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14 Marzo 2013 - Ore 11.30
Nelle zone lacustri fioriscono le Ortensie. Sinceramente sono fiori che mi
affascinano. Forse anche perché sono i fiori dell’estate. Percorrendo le
strade che serpeggiano lungo i fianchi dei monti vicino ai laghi, osservo
i punti in cui so che prima o poi inizieranno a sbocciare le Ortensie.
E quando saranno sbocciate, finalmente saprò che è tornata la bella stagione,
la stagione della luce, del sole … la stagione … delle Ortensie!
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EMOZIONI SCANDINAVE
Le coste del Mare del Nord, del Mar Baltico, del Mare di Norvegia, i villaggi della Danimarca
con le sue casette tipiche, le mitiche città come Copenhagen, Oslo, Stoccolma, poi le grandi
pianure della Svezia meridionale, i laghi immensi, i boschi di betulle e di pini,
i fiori a grappolo, blu intenso o rosa fucsia: quando si va per la prima volta in
Scandinavia, poi si torna sempre, per l'irresistibile fascino della Scandinavia.
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Vivere per viaggiare, viaggiare per vivere
Questo era un motto caro a coloro che
prima a cavallo, e, nella versione più recente, cavalcano motociclette per vivere viaggiando.
Girando per le strade d'Europa si scopre che questa filosofia di vita si
espande a un numero sempre più ampio di viaggiatori.
Perché viaggiando si conoscono nuovi
modi di concepire la società, le usanze, altre maniere di pensare, possibilità che credevamo
impossibili.
Viaggiare è conoscere.
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Frändefors Lungo la E45, la strada che congiunge Gotebotg con Karlstadt, si incontra un villaggio che
appare quasi incantato, nel cuore più sperduto della Scandinavia...
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Notti artiche - Il sole di Mezzanotte
Dopo aver vagabondato per una intera settimana nel sole che non tramonta mai, a nord del
Circolo Polare Artico durante il mese di
Giugno, dopo aver visto il sole mentre
ti addormentavi e averlo intuito dormendo e rivisto svegliandoti, tornare nel mondo
del buio notturno infonde un senso di forte sgomento.
Al di là del Circolo Polare Artico, in estate, il sole non tramonta mai.
O meglio: in prossimità del Circolo il fenomeno dura pochissimi giorni, attorno al 20 Giugno. Più
ci si allontana in direzione nord, e più sono numerosi i giorni senza notte. Il sole, verso la mezzanotte
(in realtà verso l’una, visto che c’è l’ora legale), scende a nord fino a lambire quasi l’orizzonte. A Ny
Alesund, base scientifica situata nelle isole Svalbard, il fenomeno dura per mesi e in piena notte il sole
è alto come in Italia d’estate alle 7 di mattina. Il Sole di mezzanotte ti cambia, dentro. E, come
il mal d’Africa, poi vivrai con la speranza e il desiderio di tornarvi.
Nell’edificio di Capo Nord, seduti accanto alla vetrata,
alle due di una notte di fine giugno, si viveva un’atmosfera rarefatta, irreale. Illuminati
da un sole giallastro, simile alla luce di un tramonto autunnale sul mar mediterraneo, si
vedevano le persone, imbacuccate per i diversi gradi sotto zero della temperatura e per
la forte umidità, vagare tra le’edificio e la transenna estrema, in legno, al di là
della quale vie era il baratro, un burrone a picco sul mare. Si intravedeva il mare,
gelido, e là in fondo nuvole, che davano un’illusione di iceberg, ma che sicuramente
erano solo nubi. E tutto era come pietrificato (congelato?) nel tempo.
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Immagini mediterranee
Da qualche anno tornare alle origini è diventato triste. Intendiamoci, il fenomeno
non si è scatenato all'improvviso. Per molti decenni tornare ai miei pini, al mio mare,
era una felicità assoluta,
impazzivo di gioia. Poi le emozioni si sono smorzate. All'improvviso, una sera,
stavo per camminare lungo la
Terrazza, quando mi resi conto di essere triste. E la tristezza si trasformava rapidamente in
angoscia. E avevo soltanto voglia di tornare in albergo.
Ma in un felice giorno di Gennaio del 2014, in una stupenda domenica di sole
ti ho ritrovato, con le voci, gli echi, la folla, la luce, i suoni, gli odori, i sapori
della sempre più lontana infanzia. E queste, queste immagini dalla costa degli Etruschi,
immagini viste con gli occhi di chi vi è nato, queste sono
le immagini da portare via per sempre.
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Andenes, la città delle Balene
Anticamente era un punto di partenza per la caccia alle balene.
Ora è stata riconvertita a porto di partenza per safari fotografici e turistici delle balene stesse.
Abitata da circa 2600 persone, è un luogo incantevole, di piccole casette coloratissime, un faro,
gabbiani a non finire, un porticciolo e tantissimo cielo libero.
vagando per le strade semideserte di Andenes tornano, violenti, ricordi lontani, di altri mari,
di altri moli, di altri porticcioni. In fondo tutte le città di mare appartengono alla stessa
Repubblica delle città di mare
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I fratelli Grimm raccoglievano dalla viva voce delle donne dei villaggi le fiabe, i racconti, le storie che
si tramandavano di madre in figlia, fiabe inventate, che contenevano profonde verità. Poi le fiabe finivano per
evolversi, come gli esseri viventi, e Biancaneve e Rosaspina e Cenerentole e La bella addormentata nel bosco
sono fiabe diverse ma simili, fiabe sorelle. Il racconto nasce con la parola. Il racconto nasce
con gli albori della vita, senza
la carta, senza la stamapa. Il racconto è la vera ricchezza dell'umanità (e, forse, non solo).
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Dall'equatore all'Antartide
I viaggi in America latina, invece, al momento ammontano a tre, e tutti concentrati nella
zona a nord della capitale, Buenos Aires. Questa immensa città, la capitale del Tango, ma
non solo, varrebbe come unico motivo di un viaggio nel continente latino americano. Buenos
Aires è veramente sconfinata, e non basterebbero anni, per scoprirne ogni risvolto. Quasi
interamente costruite da mani italiane, dalle mani dei muratori italiani che partivano, in
varie epoche, a ondate, e trovavano prima di tutto in Buenos Aires il primo attracco. Ma poi
si sono spinti più verso l’interno, a nord, a sud, a ovest.
Nella zona nord, chiamata Entre Rios, cioè tra due fiumi, nelle piazze principali, sedendosi
a un tavolino di una caffetteria, è facile sentirsi ancora in Italia, per le facce italiane
dei clienti. Però parlano spagnolo, castigliano, perché magari sono nati, in Argentina. Un
viaggio verso il nord, in Argentina, equivale a un viaggio verso il caldo, verso la zona
tropicale, con tutto il fascino che ne consegue.
Il sud, invece, è sempre più fresco, e in inverno anche freddo, e Ushuaia è la conclusione
del percorso come Capo Nord lo è per la Scandinavia. È possibile stabilire un parallelismo
tra questi due itinerari, ma le cose, poi, sono diversissime. E le scopriremo assieme.
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Val più un'immagine... E poi tante foto, foto che raccontano, foto che sono state vissute,
foto che vivono, foto che rivivono,
foto che volano, foto che viaggiano, foto che vanno, foto che restano.
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Foto dal mondo!!!
Fotografie, cogli l'attimo, che fugga o no. La fotografia racconta, la fotografia ferma il tempo.
Per passare, il tempo passa. L'importante, sì, è vivere. E navigare. Ma tutto può essere rivissuto,
diciamo anche rinavigato mediante un'immagine, che abbia colto al volo l'attimo fuggente.
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OCEANI ISOLE E CONTINENTI
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