Oceani | Freccia Amaranto | Narrativa | Poesie

Saudade


di Gianni Nigro
Saudade è un termine pressoché intraducibile, nella lingua italiana. O meglio, si può dare l’idea di che cosa significhi, ricorrendo ad una lunga serie di frasi, ma non si può assolutamente trasformare in una sola parola in lingua italiana. Anche perché con saudade i portoghesi e successivamente i brasiliani, indicano molti stati d’animo leggermente diversi tra loro, utilizzando però la stessa parola.
In generale la saudade è una forma di nostalgia lacerante, di senso di mancanza, per una persona o per un luogo, o per ricordi di vita vissuta eccetera. Una nostalgia, una malinconia, un senso di mancanza, che è però ad altissimo livello.
Io, da sempre, soffro di Saudade. Ma ora che ho passato (da poco) i sessanta cinque anni, ne soffro per tutto il tempo che sono sveglio e spesso sogno ciò di cui da sveglio ho una lacerante Saudade (forse è inutile aggiungere lacerante perché, come già detto, la Saudade è già lacerante di per sé.
Ad esempio, talvolta, mi prendono attacchi di saudade per i tempi lontani, dell’infanzia, dell’adolescenza.
Saudade di quando, adolescente, prendevo la bicicletta e mi gettavo in lunghissime volate mozzafiato, magari nelle sere d’estate, prima di cena, e letteralmente volavo, perché a quell’età il metabolismo verso sera era più efficiente, al contrario di adesso, in cui verso sera mi sento uno straccio, privo di qualsiasi energia.
Volavo, sì, letteralmente volavo, sul lungomare di Livorno, con le ombre dei lecci o delle tamerici allungatissime sopra l’asfalto di viale Italia. Volavo, per tornare verso casa, la casa di mia nonna, quella che conservava per i figli e i nipoti, perché normalmente viveva a casa di mia zia.
Volavo lungo le strette stradine della Romagna, dalla Rovere a Villa Grappa, da Villa Grappa a Varano, da Varano alla Rovere, per completare una specie di triangolo, che talvolta cronometravo con il bellissimo orologio col cronometro che mi avevano regalato le zie di mia madre.
Volavo in salita, trovavo la forza di trasformare in quasi pianura le rampe non troppo ripide delle colline della Romagna, mi alzavo sui pedali su quelle più dure, alla Charlie Gaul (come era lontana da venire la tragica parabola di Pantani).
Volavo anche sulle tante salite che portano al Santuario di Monte Nero o più in su ancora, alla vetta del monte del Castellaccio. La salita più dolce, quella insomma meno ripida, era la cosiddetta Panoramica, tra due muri di oleandri, di fiori di color bianco, rosa, rosso acceso, rosso scuro. La Panoramica! Avvolta da un vortice di vegetazione mediterranea, oleandri ma anche lecci, tamerici, pini, pitosfori e altro, attraverso gli spacchi della giungla di vegetazione mediterranea, potevi intravedere il mare. E più salivi e più l’orizzonte si allungava, verso lidi lontani.
Ora mi viene da ridere a ripensare alla caduta in quel quasi tornante che poi soprannominai la curva del Grande Trocantere!.
Dunque, procediamo con ordine. Da anni avevo l’abitudine di auto cronometrami un giro che iniziava all’altezza di un cartello stradale dalle parti di Antignano Terra. Transitando in bici facevo scattare il cronometro quando passavo accanto al cartello. Mi dirigevo verso il paesino di Montenero Basso e deviavo per la salita del Castellaccio, che, presa da quel versante, era molto impegnativa. Di lassù, dove le pietre erano di un rosso acceso, si vedeva tutta Livorno e il mare e la diga foranea, e i due fari della Meloria. In realtà io tenevo lo sguardo fisso sui pochi metri d’asfalto che mi sopravanzavano e vedevo anche le gocce di sudore che cadevano sulla canna della bici.. Tutto il resto lo intravedevo, lo intuivo, lo ricordavo.
Poi mi gettavo in una folle discesa di cinque chilometri, con un solo tornante e un morbido zig zag che ripiombava a immergersi nella giungla di lecci e pitosfori fino a immettersi nell’Aurelia che, sfiorando il mare, mi riportava ad Antignano, in un punto da me fissato in cui bloccavo il cronometro.
Il tutto mi impegnava per circa tre quarti d’ora.
Il giorno del mio compleanno, ai primi di Agosto del 1967, decisi di festeggiare stabilendo, nel primo pomeriggio, il nuovo record del giro. Non avevo fatto i conti, però, con la pioggia.
Quando lasciai la casa di mia nonna, dopo i festeggiamenti in famiglia, c’era una specie di solicchio che presto si trasformo in cielo grigio anzi plumbeo.
Ero a metà della dura salita del Castellaccio, quando cominciarono a cadere le prime goccie.
Sarà stato il pranzo non ancora digerito, ma i morsi della fatica mi attanagliavano cosce e polpacci. E infatti al transito in cima al Castellaccio ero in ritardo di quasi un minuto rispetto ai precedenti passaggi. Decisi di recuperare in discesa. Che decisione stolta!
Durante il primo chilometro di discesa la pioggia si infittì, un vero acquazzone estivo. Piombai sul tornate ad altissima velocità. Ero già dentro alla curva, piegato per oppormi alla forza inerziale, quando per un attimo toccai i freni. La ruota posteriore scivolò via e mi ritrovai a sbattere violentemente il fianco destro, soprattutto l’anca.
Al Liceo avevamo studiato, un po’ sinteticamente, anatomia, e sapevo che la protuberanza esterna del femore, all’altezza dell’anca, prende la denominazione di Grande Trocantere.
Stavo sdolorando, accasciato sull’asfalto bagnato, meditando che avevo picchiato forte proprio il Grande Trocantere, quando venne su un auto, a bassa andatura. Il guidatore si sporse dal finestrino e mi avvertì: «Guarda che la discesa è tutta così!»
La discesa. E pensare che volevo recuperare un minuto e ora ne avevo tre, di ritardo. Tra l’altro era anche saltata la catena e il manubrio era storto. Rimisi a posto la bici e ripartii. L’anca non mi faceva male. Toccando, constatai che i pantaloncini non si erano rotti, ma sotto i pantaloncini sentivo la pelle bruciare nel punto dell’impatto con l’asfalto.
Nonostante le raccomandazioni dell’automobilista, affrontai il resto della discesa ad andatura folle, come programmato, e continuai a pedalare come un forsennato anche sull’Aurelia.
All’arrivo Avevo ancora due minuti di ritardo dal record. A ripensarci adesso, vorrei passarli tutti così, i compleanni. Come è bello essere giovani! Giovani e incoscienti!
A casa non dissi niente. Verso le cinque mia madre propose di fare un giretto in macchina, visto che non pioveva più. E come sempre ci ritrovammo tutti e quattro in auto, con mio padre alla guida, mia madre al suo fianco, e dietro mia nonna e io.
Posteggiarono a Montenero Basso e si iniziò la passeggiatina in via delle Pianacce, una stradina abbracciata da siepi altissime di pitosfori.
Stavo camminando davanti a tutti quando mia madre osservò: «Ma tu Gianni zoppichi».
Dapprima tentai di negare, ma presto ammisi di essere caduto. Dovetti esibirmi in un piccolo spogliarello e resi visibile il cerchio rosso dove non c’era più pelle, largo circa cinque centimetri di diametro.
Lì vicino c’era una farmacia e comperarono del cotone idrofilo, dell’alcol e dell’acqua ossigenata, garze e cerotti. Decisero che si doveva in tutta fretta tornare a casa per fare la medicazione. La passeggiatina era finita.
Quella notte mi svegliai pieno di angoscia. L’anca mi faceva un male tremendo e temevo di essermi fratturato il femore. Dovevo andare in bagno e constatai che riuscivo a camminare. Dunque non c’era niente di rotto.
Già al risveglio e durante la colazione mi sentii meglio. Dopo tre giorni risalii in bici. L’articolazione all’inizio mi faceva male, ma col passare dei minuti con lo scaldarsi dei muscoli il dolore si attenuava. Comune non affrontai nessuna salita e presto tornai a casa. Restai altri due giorni a riposo e sabato, a una settimana esatta dalla caduta, ritentai di fare una bella pedalata. La gamba era come nuova e la mia gita cicloamatoriale fu di novanta chilometri e comprese il Romito, la salita di Rosignano marittima, quella di Castellina marittima, il ritorno con la salita di Rosignano marittima dal lato durissimo, la ia Aurelia, e, ciliegina sulla torta (anche se ormai non era più il mio compleanno) la salita verso il Castellaccio, quella dove ero caduto sette giorni prima facendola in discesa.
Quando arrivai a Livorno erano già accesi i lampioni e l’aria era autunnale. Mi sentivo un fantasma (avevo la pessima abitudine di non bere mai in bicicletta e mi disidratavo sempre).
Saudade del tempo che fu, di avventure minimali dentro le quali però mi sentivo un eroe.
In tanti mi dicono che ognji età ha i suoi momenti belli. Mah. Sarà, però le speranze, i sogni perduti, le tante strade aperte che poi anno dopo anno si chiudo, non le riavrò mai più.