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Tracce dell'anima - 3


di Gianni Nigro
Avevo sedici anni quando decisi di andare a Livorno in bicicletta. Fino a quel momento, all’arrivo dell’estate, ero sempre andato alla stazione in bicicletta, con lo zaino sulle spalle, quindi spedivo la bici come bagaglio appresso e prendevo il treno, sempre col mio inseparabile zaino, per poi recuperare la bici all’arrivo.
Quell’anno andai il giorno prima alla stazione, in bicicletta e con lo zaino sulle spalle. Spedii lo zaino come bagaglio appresso e tornai a casa.
La mattina dopo, alle cinque, svegliai i miei genitori e li avvertii che stavo partendo per andare a Livorno in bici.
Gliel’avevo ripetuto per un mese intero, che l’avrei fatto, ma non mi avevano mai preso sul serio.
Quella mattina si svegliarono a fatica e lamentandosi, ma quando mi videro vestito di tutto punto, con la maglietta da corridore, i calzoncini e il cappellino da corridore e le scarpette adatte ai puntapiedi, mi fissarono ancora increduli, a occhi spalancati.
Pochi minuti più tardi traballavo sui lastroni del pavé della circonvallazione. A Piacenza presi delle banane da una baracchina lungo la via Emilia. A Fornovo mi infilai in un ristorante. Poi per fare i tre monti del Passo della Cisa (Monte Cassio, Monte Marino e Cisa vera e propria) impiegai quasi tutto il pomeriggio.
Non ero minimamente allenato per le salite.
Alle sei mi fermai a Pontremoli in una pensioncina: mille lire per la cena e mille lire per dormire. Il gestore mi consentì di portare la bici in camera.
La mattina dopo pedalai per un’ora sui pedali. Posarmi sulla sella era impossibile, per il dolore. Poi mi riadattai.
Il tratto d’Aurelia tra Pisa e Livorno la volai a 45 all’ora e a mezzogiorno ero già a casa dei miei zii (la bici in spalla).
Non mi credevano. Pensavano che avessi ritirato la bici alla stazione. Ma in effetti il treno Milano – Livorno era uno solo al giorno, e sarebbe arrivato più tardi.
La prima volta che percorsi la Cisa, era stata nel Cinquantanove, a bordo della Seicento, con i miei genitori. Ci stavamo trasferendo (per sempre) da Livorno a Milano.
La Cisa diventò la strada del Ritorno.
Tornavamo a Carnevale, a Pasqua, ogni volta insomma che c’era un giorno di festa. I miei genitori ne approfittavano per fare il ponte e tornare a Livorno.
Poi cominciai a tornare da solo, in treno.
E quando ebbi la macchina, iniziai a tornare quasi maniacalmente. E sempre passando la vecchia Cisa, anche quando ormai avevano costruito l’Autocamionale della Cisa, cioè l’autostrada.
Adesso io ci sono sempre, sopra l’asfalto un po’ vallonato della Cisa. Ci sono col Pensiero.
Io sono da qualche altra parte, ma un pezzettino della mia Anima è sempre là.
E transita, avanti e indietro, di giorno e di notte, col sole e col buio e con la pioggia, e con la neve, lungo i 37 chilometri della Cisa.


Due o tre anni fa avevo perso molto sonno. Ero partito da un albergo alle otto di sera per tornare a casa, a quattro ore di distanza. Poi, dopo un’ora di sosta, tra parcheggio, salita in casa, prese le cose che dovevo prendere, dieci minuti di riposo sul letto per rilassare la schiena, rivestirsi perché fuori a quell’ora faceva freddo, ripartire e tutto, insomma alle cinque in punto, più rimbambito che mai, arrivai ad un piccolo bar dalle pareti di vetro, lungo la strada per tornare all’albergo. Col fazzolettino di carta presi un cannolo alla crema e al banco chiesi un caffè lungo.
Infine andai alla cassa. Ma per il rimbambimento non mi venivano più le parole. La mia mente navigava in un mare di onde ovattate.
- Mi dica – chiese la cassiera.
- Ecco, ho preso … un coso, da bere. E poi ho preso anche uno di quei cosi …
E indicai un cannolo alla crema che giaceva nell’apposito contenitore.
La cassiera memorizzò nella cassa computerizzata il tutto, poi mi indicò il display e mi disse:
- Ecco, lei paga 8 di questi così.
Le detti dieci cosi, mi restituì 2 cosi di resto e tornai alla macchina.
Quando ero arrivato al bar era ancora un’alba scura. Adesso stavano arrivando i primi raggi di sole.
Iniziai a scendere la discesa, con lenti zig e lenti zag, impercettibili zig e impercettibili zag. E anche se negli ultimi anni i brividi di felicità mi erano diventati più che rari, in quel momento sentii di essere felice.
Era bello il giochino dello zig e zag. Era bella l’alba e i primi raggi del sole inondavano la valle e i monti.
Due tornanti secchi posero fine agli zig zag, ed era terminata la … la cosa, sì, come si chiama … la discesa!


Verrà un giorno, in uno spazio senza tempo e in un tempo senza spazio, in cui veleggerò più leggero dell’aria. L’automobile sarà fatta di vento. Io sarò fatto di vento. E sarà un volo senza fine.