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Frammenti al vento


di Gianni Nigro
È ricominciata l’estate. O meglio: è ricominciata l’estate senza estate.
Già. Sono esattamente le 14 e 33 minuti di Mercoledì 21 Gennaio 2015 e già sento gli albori, i primi fremiti, di quella stranissima primavera, di quel Marzo, che l’anno scorso si caratterizzò per essere un’estate senza estate. Ho detto Marzo? E ho già sbagliato.
In effetti già a Gennaio, in un assolato giorno di metà mese, il termometro aveva toccato i 16 gradi. Come quest’anno. Ma per tutto il mese di Gennaio mai era sceso sotto lo zero. Come quest’anno (forse quest’anno lo ha fatto per un paio di notti, tranne poi risalire rapidissimamente fino a 15 nel primo pomeriggio).
Sì, ma non voglio neanche sentir sussurrare il solito “non ci sono più le stagioni”.
No! Le stagioni ci sono ancora. Ma … con distribuzione random, casuale.
Un pomeriggio di quasi estate in pieno febbraio, tre giorni di autunno (in Marzo, in Giugno, in Luglio, in Agosto!!!) … anzi, in Agosto, nel 2014, per ben tre volte ho visto nel termometro della mia auto e nei vari termometri digitali sparpagliati lungo le strade, la temperatura di 15 gradi. In pieno Agosto.


Ripenso alla curva del Grande Trocantere. cercate, cercate. Cercate sulle mappe del Touring club, cercate su Maps, cercate dovunque. Mai lo troverete, se non nella mia fantasia, nelle mie elucubrazioni, nelle mie parole al vento, nei miei discorsi a pera.
A sud di Livorno c’è la collina del Castellaccio. La percorrevo spesso, in bicicletta, nel primo pomeriggio, nei lontanissimi anni Sessanta. A volte salivo lungo la Panoramica o la direttissima, che portano a Montenero Alto. A volte invece prendevo una laterale, che evita il paesino di Montenero e sale fino in cima al Castellaccio. Poi mi gettavo in discesa, fino alle scogliere di Calafuria e del Romito per tornare, col mare negli occhi, a casa (a scolare succhi di frutta per la disidratazione).
In una giornata di pioggia, il 5 Agosto 1967, per festeggiare i miei 18 anni, mi gettai in discesa a rotta di collo. Volevo stabilire il mio nuovo record del giro del Castellaccio. In un tornante, bagnato dalla prima pioggia, una pioggia estiva, fresca e calda al tempo stesso, fragrante, che provocava l’impregnarsi dell’aria di odore di muschio, di aghi di pini, di resina, di vegetazione mediterranea, in quel tornante la ruota posteriore perse il contatto con l’asfalto bagnato e mi ritrovai a sbattere sulla dura strada la parte sporgente del fianco, detta Grande Trocantere.
Non so cosa darei per avere nuovamente quell’età, anche a costo di sbattere il Grande Trocantere ogni giorno.
Il mio mare. Il mio mare … che mai più riavrò.


Oggi non sono andato a fare il giretto intorno al lago. Troppa strada per raggiungerlo, troppa strada e troppo traffico per tornare. E poi non ci sono le ortensie. Ma il giretto intorno al lago, ad andatura lenta, con la macchina a marce basse, le casette e i fiori invernali, il sole che appare nel pomeriggio, il riflesso della luce del lago, mi mancano.


Da qualche tempo non riesco più a concentrarmi nella lettura. Ho passato la vita a leggere. Il mio motto era “sempre con l’amico libro”! Ora dovrebbe essere “sempre con l’amico Tablet”! Ma non l’ho ancora comperato. Non so perché. Ma … non leggo più.


Tra poco ci sarà il Festival di San Remo e quest’anno ho intenzione di guardarlo. Però … negli anni Cinquanta era un’altra cosa. Mia madre comperava in edicola un libriccino che in copertina aveva l’immagine del Casinò e delle palme, e dentro conteneva i testi di tutti le canzoni. Poi seguiva le canzoni dalla Radio col libriccino in mano. Anche il gatto ascoltava la radio. Beh, dico, a quei tempi San Remo era San Remo!


E San Remo, a Marzo era la Milano – Remo! Andavo nel cortiletto in via Galilei dove c’era la punzonatura. I corridori belgi si caratterizzavano per avere la faccia piena di cicatrici. Fin dalle prime corse correvano sul pavé e cadendo si rompevano la faccia.
Poi tutto ebbe varie evoluzioni, compresa la mia testa. E qualche volta ho addirittura saltato il fatto di guardare la Sanremo in tv.


Sul letto teniamo fissi 5 pelouche. Una coppia di tartarughe, che ovviamente d’inverno se ne stanno nascosti nei meandri dei piumoni. Poi un alce maschio, una alce femmina (in realtà era un maschio, aveva le corna, ma gliele abbiamo tagliate … insomma potremmo considerarlo un trans, ma la chiamiamo Elga e la consideriamo una femmina a tutti gli effetti. D’inverno è sempre coperta da femminili foulard.
E infine c’è la Muffa. Non è un animale definito. Ha un orecchio rosa e uno grigio, i capelli rossi, e poi non somiglia a nessun essere vivente in particolare. Ha occhioni celesti sempre un po’ maliziosi. Ci sono giorni che i nostri pelouche sono gli unici esseri viventi con cui parliamo.


Mio padre, dopo i sessant’anni, me lo diceva sempre: “faccio un sacco di incubi!”.
Bene, anch’io, passati i sessanta, faccio un sacco di incubi. Mi viene in mente il racconto “Descrizione di una battaglia” di Kafka.
A volte preferirei restare sveglio tutta la notte, insomma … non addormentarmi mai. Come i ragazzi di Springwood in Nightmare.


Ma un giorno ho sognato di essere ancora un bambino e di giocare davanti al mio mare.
E mi sono svegliato felice.



Era una stupenda sera di Maggio. Viaggiavo in macchina ad andatura lenta, sotto un cielo magicamente stellato.
Mi fermai in cima al passo, nel parcheggio di un piccolo autogrill ed entrai.
In effetti le luci erano quasi tutte spente e da due minuti l’autogrill aveva superato l’orario di chiusura. Ma vicino alla cassa c’erano ancora due impiegati, una donna matura e un ragazzo pelato.
Chiesi a entrambi un tramezzino.
- Mi dispiace – disse la donna – ma la cassa è chiusa.
- Ah. Beh, ma è solo un tramezzino …
- Eh, no, la cassa è chiusa.
- Ho capito, ma io vi pago lo stesso, mettete i soldi da qualche parte e domattina li mettete in cassa.
- No. Il regolamento lo vieta.
- Ma ve lo pago il doppio, ve lo pago il triplo …
Non c’era niente da fare. La donna non rispondeva neanche più, e continuava a rimettere in ordine. Il pelato mi dava occhiate dispiaciute e proseguiva a spazzare il pavimento.
Uscii nel vento caldo di maggio.
La strada era una lunga discesa a zig e zag.
Era uno dei miei divertimenti preferiti. Praticamente non giravo mai il volante. Andavo sempre dritto. Beh, diciamo che tagliavo le curve.
Ad ogni curva effettuavo col volante impercettibili zig o impercettibili zag.
Impercettibili, assolutamente impercettibili zig e impercettibili, assolutamente impercettibili zag.
Finché, ad un vero tornante, apparve la visione della punta nord del lago, attorniata dalle luci.
E dopo un altro vero tornante si stampò davanti ai miei occhi la città, le luci coloratissime della città, che dalla pianura si stendeva quasi fino a diventare verticale, sul fianco del monte.
Dopo un altro zig zag la discesa finì e mi fermai a un distributore automatico per comprare dei salatini.
Che stupenda sera di Maggio!


A Gennaio la luce cambia. È sempre stato così. Davanti al mare dell’infanzia o attraverso il rettangolo di una finestra, guardi la luce di Gennaio, in cielo, sulle case, sopra il mare, dietro i pini o i cipressi, dietro i gelsi o gli olmi, la luce di Gennaio cambia.
C’è nella luce di Gennaio, un brivido di primavera. Magari è anche un brivido di freddo, ma la luce, rispetto agli ultimi mesi, la luce di gennaio cambia.
Tanti anni fa, in uno dei tanti giorni di Gennaio che ho vissuto, mi venne un pensiero, una frase: Ogni stagione contiene in sé quella successiva.

Ieri ho letto su una rivista che il 2015 avrà un secondo in più. Devo confessare che da qualche anno e sempre più spesso, le giornate mi sembrano sempre più lunghe. Il tempo non passa mai. Già dalle quattro di pomeriggio inizio a pensare al momento in cui finalmente mi addormenterò. E mi vengono a dire che il 2015 avrà anche un secondo in più?!?! .


Ieri, sì, sempre ieri ma nel pomeriggio, anche perché ero ossessionato da quel secondo in più che avrei dovuto in qualche modo far trascorrere, ho ripercorso la solita discesa a zig e zag. E la discesa era buia, come in quella notte di maggio.
Ma non era notte. E non era Maggio.
Era una sera di Gennaio. Però c’erano ancora gli impercettibili zig, assolutamente impercettibili zig e impercettibili, assolutamente impercettibili zag.
C’erano ancora le luci coloratissime della città, che dalla pianura si stendeva quasi fino a diventare verticale, sul fianco del monte.
Tante cose erano cambiate. Lì, come i palazzi o i sottopassaggi o le nuove rotonde. Tante cose erano successe. Tante cose non erano più come prima e tante altre erano sempre uguali.
E io ero ancora io, come sessant’anni fa.
Non è buffa la cosa?
Non so quanti miliardi di persone ci sono, sulla Terra, ma io sono sempre e solo io.
A volte la cosa mi provoca un po’ di noia. altre volte, invece, mi guardo allo specchio e mi dico: caspita, meno male che io sono io.


Lo stesso io che, alla mattina di Natale, quando c’era il sole (e laggiù alla mattina di Natale c’era sempre il sole) uscivo coi miei genitori. Avrei voluto portarmi con me tutti i regali di Natale, ma non era possibile. Mi rassicuravano che li avrei ritrovati tornando a casa.
Allora uscivamo, e andavamo a camminare in un parco, molto vicino a casa. E io raccoglievo le ghiande. Ne raccoglievo il più possibile. Poi lasciavo le ghiande e mi mettevo a correre. E correvo, correvo, correvo.
Io credo che in quel parco, ancora adesso, del tutto invisibile, ci sia una copia di quel bambino, del bambino che ero, e che alla mattina di Natale, nel sole, si metta a correre. E corre, corre, corre ….



Avevo sedici anni quando decisi di andare a Livorno in bicicletta. Fino a quel momento, all’arrivo dell’estate, ero sempre andato alla stazione in bicicletta, con lo zaino sulle spalle, quindi spedivo la bici come bagaglio appresso e prendevo il treno, sempre col mio inseparabile zaino, per poi recuperare la bici all’arrivo.
Quell’anno andai il giorno prima alla stazione, in bicicletta e con lo zaino sulle spalle. Spedii lo zaino come bagaglio appresso e tornai a casa.
La mattina dopo, alle cinque, svegliai i miei genitori e li avvertii che stavo partendo per andare a Livorno in bici.
Gliel’avevo ripetuto per un mese intero, che l’avrei fatto, ma non mi avevano mai preso sul serio.
Quella mattina si svegliarono a fatica e lamentandosi, ma quando mi videro vestito di tutto punto, con la maglietta da corridore, i calzoncini e il cappellino da corridore e le scarpette adatte ai puntapiedi, mi fissarono ancora increduli, a occhi spalancati.
Pochi minuti più tardi traballavo sui lastroni del pavé della circonvallazione. A Piacenza presi delle banane da una baracchina lungo la via Emilia. A Fornovo mi infilai in un ristorante. Poi per fare i tre monti del Passo della Cisa (Monte Cassio, Monte Marino e Cisa vera e propria) impiegai quasi tutto il pomeriggio.
Non ero minimamente allenato per le salite.
Alle sei mi fermai a Pontremoli in una pensioncina: mille lire per la cena e mille lire per dormire. Il gestore mi consentì di portare la bici in camera.
La mattina dopo pedalai per un’ora sui pedali. Posarmi sulla sella era impossibile, per il dolore. Poi mi riadattai.
Il tratto d’Aurelia tra Pisa e Livorno la volai a 45 all’ora e a mezzogiorno ero già a casa dei miei zii (la bici in spalla).
Non mi credevano. Pensavano che avessi ritirato la bici alla stazione. Ma in effetti il treno Milano – Livorno era uno solo al giorno, e sarebbe arrivato più tardi.
La prima volta che percorsi la Cisa, era stata nel Cinquantanove, a bordo della Seicento, con i miei genitori. Ci stavamo trasferendo (per sempre) da Livorno a Milano.
La Cisa diventò la strada del Ritorno.
Tornavamo a Carnevale, a Pasqua, ogni volta insomma che c’era un giorno di festa. I miei genitori ne approfittavano per fare il ponte e tornare a Livorno.
Poi cominciai a tornare da solo, in treno.
E quando ebbi la macchina, iniziai a tornare quasi maniacalmente. E sempre passando la vecchia Cisa, anche quando ormai avevano costruito l’Autocamionale della Cisa, cioè l’autostrada.
Adesso io ci sono sempre, sopra l’asfalto un po’ vallonato della Cisa. Ci sono col Pensiero.
Io sono da qualche altra parte, ma un pezzettino della mia Anima è sempre là.
E transita, avanti e indietro, di giorno e di notte, col sole e col buio e con la pioggia, e con la neve, lungo i 37 chilometri della Cisa.


Due o tre anni fa avevo perso molto sonno. Ero partito da un albergo alle otto di sera per tornare a casa, a quattro ore di distanza. Poi, dopo un’ora di sosta, tra parcheggio, salita in casa, prese le cose che dovevo prendere, dieci minuti di riposo sul letto per rilassare la schiena, rivestirsi perché fuori a quell’ora faceva freddo, ripartire e tutto, insomma alle cinque in punto, più rimbambito che mai, arrivai ad un piccolo bar dalle pareti di vetro, lungo la strada per tornare all’albergo. Col fazzolettino di carta presi un cannolo alla crema e al banco chiesi un caffè lungo.
Infine andai alla cassa. Ma per il rimbambimento non mi venivano più le parole. La mia mente navigava in un mare di onde ovattate.
- Mi dica – chiese la cassiera.
- Ecco, ho preso … un coso, da bere. E poi ho preso anche uno di quei cosi …
E indicai un cannolo alla crema che giaceva nell’apposito contenitore.
La cassiera memorizzò nella cassa computerizzata il tutto, poi mi indicò il display e mi disse:
- Ecco, lei paga 8 di questi così.
Le detti dieci cosi, mi restituì 2 cosi di resto e tornai alla macchina.
Quando ero arrivato al bar era ancora un’alba scura. Adesso stavano arrivando i primi raggi di sole.
Iniziai a scendere la discesa, con lenti zig e lenti zag, impercettibili zig e impercettibili zag. E anche se negli ultimi anni i brividi di felicità mi erano diventati più che rari, in quel momento sentii di essere felice.
Era bello il giochino dello zig e zag. Era bella l’alba e i primi raggi del sole inondavano la valle e i monti.
Due tornanti secchi posero fine agli zig zag, ed era terminata la … la cosa, sì, come si chiama … la discesa!



Gli ultimi sei mesi erano stati come al Giro d’Italia: una gigantesca tappa di montagna. All’improvviso erano apparse davanti, da scalare, tante salite. E ogni volta la salita successiva pareva più aspra, più ripida, più lunga, più impossibile.
Poi la vetta della salita passava, svaniva, e iniziava una dolce discesa, ma quasi subito ricominciava un’altra salita.
Tante volte nella vita è così: all’improvviso e senza volerlo, senza prevederlo, ci si trova in una tappa di montagna e la vita diventa di colpo una serie di salite impervie da scalare, da superare.
Adesso le salite sembravano finite.
Non c’era quasi più da pedalare, così almeno sembrava.
Non c’era più da faticare, da soffrire, da aspettare.
Ora tutto era celeste, sereno, morbido.
Avremmo voluto fermare quell’attimo ed estenderlo al futuro, all’infinito.



L’altro giorno sono tornato nello stesso luogo di un anno prima. Sembrava tutto uguale. Stessa luce, stesso freddo, stessa umidità, il luogo invariato anche fisicamente.
Ma tutto era cambiato.
Tutto era sconvolto, ma in maniera invisibile.
Inutile attendere. Anche se si sta fermi, immobili, qualcosa cambia. Sempre.
Se non altro, la Terra gira.
E, soprattutto, gli anni passano.



Il mio pelouche preferito è una tartaruga. Lo chiamo Il Tarto. Dunque, Tarto è il suo nome.
Ieri era triste.
Gli ho chiesto: - Tarto, perché sei triste?
- Non lo so – mi ha risposto.
- Ma una ragione ci sarà.
- Non lo so. Sono triste e basta.
- Non posso far qualcosa, Tarto, per farti passare la tristezza?
- Sì, lasciarmi nella mia tristezza. Poi passa.
- Passa da sola?
- Sì, arriva, violentissima, poi passa.
- Ti capita spesso, Tarto?
- Sì, negli ultimi anni sì. Da tre anni o poco più.
- E in tre anni non hai mai capito il perché della tristezza?
- Oh, sì, alcune cause le ho individuate. Ma non si possono eliminare. E dunque mi tengo la tristezza. Per favore, ti prego, lasciami nella mia tristezza.
- Ho capito, Tarto, ma siccome ti voglio bene e tu lo sai, mi dispiace e vorrei fare qualcosa contro la tua tristezza.
- No – e scosse il capo – ti ringrazio, ma per favore, te lo chiedo per favore: lasciami con la mia tristezza.



Rivedo la sua ombra, nell’oscurità della sera. Rivedo la sua ombra. La sua ombra vive, ma dentro la mia memoria, il mio ricordo, la mia anima.
Il vento ha spazzato le emozioni, le sensazioni, gli attimi vissuti.
Il vento del tempo ha spazzato momenti di vita vissuta.
Il vento ha spazzato i mille e mille momenti di vita vissuta, in tanti anni. Tante persone non si vedono più, sono lontane, o sono cambiate, o sono comunque irraggiungibili, o non ci sono più.
Ne restano soltanto tracce, tracce dell’anima.



lo amo percorrere in auto, ad andatura lenta, la stradina che costeggia il lago.
Avanzo lentamente, a marce basse, gettando occhiate allo specchio lucente del lago, ai riflessi del sole sull’acqua, quando c’è il sole.
Guido e getto occhiate allo specchio lucido del lago. Guido e getto occhiate al lato opposto al lago, alle rocce del monte, all’erba, ai fiori, alle ortensie, quando è il periodo delle Ortensie.
Durante l’estate del 2013 ci fu una vera orgia di ortensie. C’era una casa che era incastonata nel monte, ed era letteralmente circondata dalle ortensie, davanti, di lato, sopra, dovunque. Ortensie celesti, per lo più, ma anche Ortensie biancastre, azzurre, rosse.
L’estate del 2015, un’estate senza estate, la pioggia aveva fatto marcire praticamente tutte le ortensie. E quell’estate, oltre ad essere un’estate senza estate, restò anche, nella mia memoria, un’estate senza Ortensie.
Non mi scoraggiavo per questi eventi, e continuavo a percorrere a lenta andatura la stradina che costeggia il lago. “Dopo di me”, pensavo, “continuerà il mio fantasma, il mio fantasma nella sua auto fantasma, e percorrerà sempre la stradina che costeggia il lago, almeno finché ci sarà la stradina, almeno finché ci sarà il lago. Almeno finché ci sarà il mondo.



Percorrendo il lungo-lago






In un mare sconfinato di tristezza, di malinconie per l’infanzia perduta, per la vita passata, laceravo me stesso.
Ma una mattina, una Domenica mattina, Rosaly, con forza sovrumana, mi estrasse dal nulla in cui ero sprofondato.
Si parte!
Come ai tempi d’oro degli anni giovani.
Si parte!
E in un lampo fu mare nuovo e antico, frizzante, una domenica di sole, una domenica fresca, luce di Gennaio, come ai tempo d’oro degli anni giovani.
La Terrazza di sempre … e il nuovo acquario.
La gente in festa di sempre … e le nuove vetrate.
i sapori di sempre … e la nuova ventata di vita,
di voglia di vita.
Una splendida …
Domenica di Sole.



Verrà un giorno, in uno spazio senza tempo e in un tempo senza spazio, in cui veleggerò più leggero dell’aria. L’automobile sarà fatta di vento. Io sarò fatto di vento. E sarà un volo senza fine.