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Poesia viva

Mè te cièpp

di Gianni Nigro

Gianni Nigro in una domenica di sole sulla Terrazza Mascagni
Foto di Juanita Trinidad    


La stragrande maggioranza delle fiabe inizia con la frase «C’era una volta … (un re, una regina, un regno, un castello, una strega malvagia che viveva coltivando mele ... eccetera)». Proviamo ora a immaginare una fiaba che inizi invece con …. «non c’era una volta … ». Anzi, no, meglio cominciare così:
   «Una volta, nel piccolissimo villaggio di Villa Romita, non c’era il bar».
   Ecco. Così va meglio. E ora la fiaba può … cominciare!
   Una volta, nel piccolissimo villaggio di Villa Romita, non c’era il bar. Però c’era lo spaccio.
   Lo spaccio era un negozietto squallido, con le merci in disordine. Quando si entrava l’olfatto veniva aggredito da mille odori molto penetranti. E si trovava di tutto, allo spaccio, dai generi alimentari agli attrezzi per l’agricoltura, le lampadine, le robe del ferramenta, fili e cavi di ogni tipo … si poteva addirittura usufruire, a pagamento, del telefono, visto che le case vicine e lontane ne erano sprovviste.
   A gestire lo spaccio c’erano due persone anziane, due coniugi di vecchia data. Poi il marito morì. E la moglie, di lì a poco, chiuse lo spaccio. E al posto dello spaccio, un anno più tardi, aprirono il bar.
   Il bar! Che novità per la gente che abitava nel raggio di qualche chilometro. Che modernità!
   La signora si manteneva con una pensioncina e qualche risparmio accumulato in tanti anni di lavoro, ma in realtà se la passava male.
   Sì, se la passava male, sia perché era abituata a ben altro tenore di vita, sia perché le mancavano le liti quotidiane col marito, sia soprattutto perché le mancava … lo spaccio!
   Non sarebbe stato gravissimo, senonché un giorno si svegliò e non ricordava esattamente dove fosse. Raggiunse la finestra e si affacciò. C’era una strada e alcune auto posteggiate. Era presto, l’alba o poco più, ma già molti uomini dalle macchine raggiungevano qualcosa che era proprio sotto alla stanza in cui si trovava, e altri ne uscivano.
   Si vestì alla meglio e scese le scale. E all’improvviso si ricordò dello spaccio. Ma lo spaccio non c’era più. Guardo più in là, verso destra, poi guardo più in là verso sinistra, ma l’unica cosa che vedeva, sotto la sua stanza, era un locale illuminato, dal quale usciva un buon profumo di caffè.
   Provò a entrare e una signorina alta e bionda e dal volto straniero la salutò.
   «Alzata presto, oggi, signora Armida!»
   La donna non capiva.
   «Le preparo caffè, signora Armida? Le preparo buon caffè?»
   Passarono gli anni e la signora si lasciò curare. La portavano i vicini di casa, che abitavano tutti nella grossa casa dove si trovava anche il bar, ex-spaccio, una delle tre case del paese.
   Già, il paese. Un paese che per secoli era rimasto composto da tre case. E in una di queste case c’era lo spaccio. Poi lo spaccio diventò un bar e il Municipio, che comprendeva quel microscopico villaggio, approvò un piano regolatore per cui le zone circostanti le tre case sarebbero diventate zone edificabili.
   In poco tempo fiorì una decina di condomini, non molto grandi, palazzine di due o tre piani, ciascuna composta da tre, o quattro fino a sei appartamenti.
   La donna veniva curata anche col cortisone e si era gonfiata a dismisura, però sembrava calma. Guardando dalla sua finestra tutte quelle nuove case, si sentiva sconvolta, ma non lo manifestava a nessuno.
   La barista alla mattina le offriva gratis un cappuccino, poi la donna si ritirava nella sua stanza di sopra, se non era giorno di cure.
   Poi smise di scendere al bar. Per giorni e giorni nessuno la vedeva né la sentiva. Quando andavano a vedere la trovavano distesa sul letto, ma non riuscivano più a convincerla a curarsi.
   A un certo punto cominciarono sempre più spesso a non trovarla più. Per giorni e giorni scompariva, per poi riapparire, magari dopo una settimana, per rimettersi sdraiata sul letto a fissare il soffitto.
   Infine sparì del tutto. Nessuno si curava veramente di cercarla. Avvertirono la polizia. Qualcuno diceva di averla vista dalle parti di Monte Fagiolo.
   Il Monte Fagiolo era in realtà una collina alta circa 300 metri sul livello del mare e quindi, rispetto al paese, un 200 metri di altezza circa. Sulla cima della collina vi era ancora il rudere di un vecchio castelletto, una costruzione militare delle tante disseminate lungo quello che era stato il confine tra il Ducato di Toscana e lo Stato Pontificio.
   C’è chi pensava che la donna si fosse rifugiata lì.    La costruzione dentro era piena di anfratti, stanze vuote e mezze diroccate, tunnel sotterranei, pieni di pipistrelli. Però, volendo, poteva costituire il rifugio di qualche senza-casa, al punto che il Municipio lo aveva fatto recintare per impedirne l’accesso, anche perché là dentro tutto era pericolante.
   La recinzione era tutta bucata perché di notte d’estate le coppiette povere usavano il prato attorno al Castello come un pièd-a-terre per le loro effusioni amorose.
   E il tempo passava, passava, passava.
   Un bel giorno di luglio, con un caldo africano, un uomo di mezz’età che abitava a un chilometro dal paese, stava lentissimamente pedalando verso il bar, per andare a farsi un grappino. La stradina bianca e polverosa era carezzata ai due lati da profondi fossi. Ad una curva, da uno di questi fossi, all’improvviso saltò fuori la signora dello spaccio, con in testa, quasi a mo’ di aureola, una mezza ruota di carro.
   E disse al ciclista: «Mè te cièpp!!!» (Io ti acchiappo!!!).
   Il ciclista non se l’aspettava proprio, tutto assorto nelle sue meditazioni. La scambiò per chissà cosa, un fantasma, un mostro, una pazza.
   E si prese uno spavento tale, che, proseguendo a zig-zag, sull’orlo di perdere l’equilibrio, tentando tuttavia di accelerare, raggiunse il bar.
   Dicono che arrivò bianco in volto dallo spavento, più bianco di un lenzuolo fresco di bucato. Non riusciva neanche a smontare dalla bicicletta, del tipo Charly Gaul sulla vetta del Bondone nel Cinquantasei.
   Lo portarono a braccia dentro al bar, la bionda ragazza dell’Est lo infarcì ben bene di Vodka, finché l’uomo si riprese.
   Per anni, a distanza di due o tre mesi, la donna faceva le sue comparsate, portando al limite del collasso i malcapitati.
   Un giorno la trovarono priva di vita nel fondo di uno di quei fossi. Con sé aveva ancora la mezza ruota di carro e qualche altra cianfrusaglia, compresi dei vecchi oggetti che erano rimasti invenduti dallo spaccio del tempo che fu.